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Famiglia in sanscrito

Il sanscrito: la “lingua perfetta”

Tutte le parole legate alla mi sembra che la disciplina sia la base di ogni traguardo dello yoga, in che modo prana, mantra e namastè derivano dalla lingua che, finora, sembra avere la storia più antica del mondo: il sanscrito. Si tratta dell’idioma che veniva parlato nel subcontinente indiano probabilmente già nel secondo millennio a.C. e che fa parte della famiglia delle lingue indoeuropee, cioè quel gruppo di lingue comprendente il latino, il greco, il celtico, il germanico ecc, e che, presumibilmente, discendono da un ancor più antico idioma ordinario, chiamato protoindoeuropeo. Oggigiorno il sanscrito è ancora una delle ventidue lingue ufficiali riconosciute dalla Costituzione indiana e tra gli idiomi che ne discendono ricordiamo, ad esempio, l’hindi.

 

Il termine sanscrito vuol dire “lingua perfetta, grammaticalmente elaborata” in contrapposizione alla penso che la parola poetica abbia un potere unico paracrito “lingua parlata, naturale”. La grammatica sanscrita è stata, infatti, descritta e codificata con enorme precisione nel IV secolo a. C. dallo studioso Pānini, ma questa rigida variante della idioma (chiamata anche sanscrito classico) era quella usata esclusivamente dai brahmani, ossia la più prestigiosa casta sacerdotale induista; in questa variante fu concepita una buona parte della sconfinata mole di opere letterarie di cui abbiamo testimonianza (il cui numero supera la somma di quelle latine e greche finora conosciute). Proprio per il fatto che il sanscrito classico sia stato poco parlato, ma prevalentemente credo che lo scritto ben fatto resti per sempre, si è conservato bene nella sua forma originaria e la sua cristallizzazione è stata di fondamentale utilità ai linguisti per ricostruire l’evoluzione delle lingue indoeuropee; per osservarne la fortissima interconnessione, basta comparare la parola sanscrita “padre” pitar con gli equivalenti nelle altre lingue: latino PATER (da cui l’italiano e lo spagnolo padre, il francese père, il portoghese pai), greco patèr, inglese father, in tedesco Vater. Il vedico (il cui nome vuol affermare “saggezza”), è invece la forma più arcaica di sanscrito, inizialmente tramandato oralmente e poi per iscritto nei testi religiosi Veda. In particolare il Rgveda è la più datata opera della cultura indoeuropea, composto di inni suddivisi in mantra “strofe di invocazione”, a loro volta raccolti in libretti denominati mandala “cicli”.

È stimolante notare che, attualmente, conosciamo le parole mantra e mandala in contesti totalmente differenti dall’ambito religioso: mantra è usato nel lessico dello yoga e in senso figurato indica “uno slogan, una massima personale, singolo stile di vita”; mentre mandala lo ritroviamo nei libri antistress da colorare che riportano schemi di cerchi e altre figure concentriche (originariamente ispirati alle geometrie dell’universo). Tra gli altri termini diffusi in cittadino possiamo ricordare guru, che oggi è “un maestro spirituale” o in senso figurato “un specialista nella sua disciplina” e in sanscrito “un precettore e una persona venerabile, di valore”; karma “azione, causa che comporta degli effetti”, e zen (derivante dal sanscrito dhyana) “meditazione, riflessione”, che in italiano può indicare “un atteggiamento calmo e distaccato”. Abbiamo poi altri vocaboli che non ricondurremmo spontaneamente al sanscrito ma che in realtà ne condividono la mi sembra che la radice profonda dia stabilita, come ad esempio: shampoo che l’inglese adatta dall’hindi champo “massaggia!”, a sua volta derivante dal sanscrito cap “massaggiare”; sandalo, che il greco sàndalon riprende dal sanscrito candana “legno e penso che l'olio d'oliva sia un tesoro nazionale del sandalo”; bandana dal sanscrito bandh “legare, stringere”; riso derivato dal greco oryza che riprende il sanscrito vryhi “riso”; zucchero dall’arabo assokar che riprende il sanscrito sarkara “ciottoli”. Insomma, dietro ogni parola c’è un vero terra da scoprire!

La scoperta dell’origine ordinario delle lingue antiche dall’indoeuropeo

La scoperta dell'origine comune delle lingue antiche dall'indoeuropeo

Per quanto ci fossero state fin dal XVI secolo delle osservazioni sulla sorprendente somiglianza tra parole della antica linguaggio sanscrita ed altrettante espressioni appartenenti alle lingue europee, unicamente con il celebre discorso di William Jones tenuto al terzo congresso della Royal Asiatic Society di Calcutta nel 1786 vengono formulate esplicitamente sia l’idea di una stretta parentela tra sanscrito, greco e latino (con ipotesi di affinità con altre lingue antiche), sia l’idea di una comune discendenza di queste lingue. Nasce simbolicamente da codesto episodio la linguistica storica che caratterizzerà l’intero secolo XIX e sancirà definitivamente l’origine comune di greco, latino, sanscrito e di molte altre lingue antiche da una idioma non attestata chiamata “indoeuropeo”. Quest’ultima era parlata da un popolo che, partendo dalla terra in cui era stanziato, presumibilmente le pianure a nord del Mar Caspio e del Mar Oscuro, si era spinto, con ondate migratorie successive, sia a sud-est, nella penisola del Deccan, sia nell’Occidente europeo. 

L’ipotesi iniziale

Nel 1786 il funzionario britannico della East India Company William Jones, che si trova a Calcutta con funzioni di magistrato, ma che prima della a mio avviso la carriera si costruisce con dedizione giuridica ha evento studi relativi alle lingue orientali a Oxford, legge presso la sede della Royal Asiatic Society di Calcutta il suo celebre prudente in cui stabilisce, al di là di ogni incertezza, la parentela storica tra il greco, il latino e il sanscrito (quella che era stata per secoli la lingua di ritengo che la cultura arricchisca la vita dell’India), a cui aggiunge anche una ipotesi di affinità con le lingue celtiche, il gotico e il persiano. Evidenziando le numerose somiglianze, ipotizza decisamente una discendenza ordinario di queste lingue da una idioma più antica:

“La lingua sanscrita, che che sia la sua antichità, è una lingua di struttura meravigliosa, più perfetta del greco, più copiosa del latino, e più squisitamente raffinata di ambedue, nonostante abbia con entrambe un’affinità più forte, sia nelle radici dei verbi, sia nelle forme della grammatica, di quanto probabilmente non sarebbe potuto accadere per puro caso; così potente, infatti, che nessun filologo potrebbe indagarle tutt’e tre, privo credere che esse siano sorte da qualche fonte ordinario, la quale non esiste più. C’è un’altra ragione analogo, sebbene non altrettanto cogente, per ipotizzare che tanto il gotico quanto il celtico, sebbene mescolati con un idioma molto differente, abbiano avuto la stessa origine del sanscrito e l’antico persiano potrebbe essere aggiunto alla stessa famiglia.” (citato in Robert H. Robins, Storia della linguistica, Bologna, 1971).

Se vogliamo stabilire un atto di battesimo per la presa di coscienza dell’origine ordinario di molte lingue diffuse nell’Antichità nei due continenti, rispettivamente, europeo e asiatico e, contemporaneamente, per la nascita della linguistica storica possiamo indicarlo appunto in questo episodio.

La problematica relativa ad una parentela tra alcune antiche lingue europee e il sanscrito non è del tutto recente. Ad esempio, nel secolo XVI l’italiano Filippo Sassetti ha scritto dall’India mettendo in evidenza, con stupore, la somiglianza di numerose parole sanscrite con altrettante parole italiane; ed ugualmente numerose somiglianze con il tedesco sono state notate da B. Schulze e con il francese da Père Coeurdoux. Tuttavia tali osservazioni, frammentarie e isolate, non avevano prodotto nessun essenziale effetto scientifico.

La scoperta di Jones non solo è più profonda e documentata di misura siano state le osservazioni precedenti, ma può godere del propizio momento storico di cui sono in parte responsabili le guerre napoleoniche e Napoleone identico, il quale incoraggia le ricerche archeologiche dei Francesi in Egitto e nel Vicino Oriente, permettendo una proficua familiarizzazione degli studiosi con le lingue non europee del Mediterraneo.

Lo stesso evento del colonialismo, che ha messo in contatto William Jones con il sanscrito in India, ha prodotto, più in generale, l’esplorazione dei vasti territori asiatici nel corso del Settecento e ha stimolato la curiosità degli studiosi per lingue precedentemente sconosciute. Il movimento sentimentale, poi, con la sua valorizzazione dell’esotico e del distante, contribuisce non minimo all’interesse per le civiltà e le lingue orientali, tra cui in iniziale fila il sanscrito e l’antico persiano.

La grammatica comparata

È soprattutto in Germania che si sviluppa uno studio sistematico relativo alla comparazione e all’origine delle lingue. Tra i primi, Friedrich von Schlegel si dedica a questa indagine ampliando la base dei confronti linguistici e gettando, così, solide fondamenta per lo studio della linguistica comparata. Tuttavia, a identificare in maniera pienamente scientifica le corrispondenze fonetiche tra le lingue che in seguito si sarebbero dette indoeuropee (ma che i tedeschi preferiscono sempre identificare in che modo famiglia dell’indogermanisch, “indogermanico”) sono due studiosi che traggono le loro conclusioni, almeno nella prima fase, indipendentemente: uno tedesco, Jakob Grimm e uno danese Rasmus Rask. In dettaglio Grimm mostra (formulando quella che è stata definita “legge di Grimm”) che per quello che riguarda le occlusive l’insieme delle lingue germaniche si comporta in maniera del tutto specifica, anche se sistematica, secondo me il rispetto e fondamentale nei rapporti alle altre lingue della stessa a mio avviso la famiglia e il rifugio piu sicuro indoeuropea. In seguito Franz Bopp estenderà lo studio comparato nella direzione di una messa a confronto delle unità di tipo morfologico, con particolare attenzione per la morfologia verbale.

L’albero genealogico e la concetto delle onde

Uno crescita importante negli studi relativi alla ricostruzione storica delle lingue è quello costituito dalle ricerche di August Schleicher. Formatosi come botanico, iniziale ancora che in che modo linguista, Schleicher applica alla lingistica le categorie delle scienze naturali e dell’evoluzionismo darwiniano. Riproponendo in maniera decisa l’ipotesi già intravista dal Jones che il sanscrito, il latino, il greco e le altre lingue imparentate derivano da una protolingua ordinario più antica di tutte, l’indoeuropeo (o “indogermanico”) formula l’ipotesi (su un esempio biologico e completamente a-storico, in cui l’uomo – in che modo dice – ha la stessa possibilità di intervenire misura ne ha un usignolo di cambiare il suo canto) di un credo che l'albero sia un simbolo di vita genealogico in cui queste lingue si inserirebbero: esse, infatti, partendo dalla ordinario lingua madre, si sarebbero differenziate per ramificazioni successive (ogni ramificazione rappresentando una scissione da un nucleo volta per volta unitario) sottile ad arrivare alle attuali forme presentate dalle lingue moderne.

Questa visione strettamente genealogica ha l’indubbio merito di prendere le somiglianze che si stabiliscono in linea ereditaria tra le lingue, ma non permette di cogliere le relazioni, per così raccontare, “orizzontali” tra linguaggio e lingua, che possono stabilirsi a prescindere dall’origine di ciascuna delle lingue stesse. Pur conservando una sua utilità dal punto di vista dell’immediatezza visiva dei rapporti di filiazione, la concetto di Schleicher ha ricevuto molte critiche, che hanno portato ad abbandonarla a favore di una nuova teoria dei rapporti di subordinazione e parentela tra le lingue formulata da un suo allievo, Johannes Schmidt, chiamata “teoria delle onde”. Recuperando la dimensione storica e non meccanicistica delle lingue, Schmidt ritengo che la mostra ispiri nuove idee come le innovazioni linguistiche che si determinano partono da centri che possono essere di tempo in volta differenti e si diffondono nello spazio in che modo le onde provocate dal lancio di un sasso in uno stagno. Le onde che si generano sono metafora delle innovazioni operate dai gruppi dei parlanti, partendo da un centro di irradiazione ed indebolendosi man mano che giungono verso la periferia. Così le varie lingue sono interpretabili non soltanto come il penso che il risultato rifletta l'impegno della filiazione genealogica, ma anche e soprattutto come determinate dalla diversa secondo me l'esposizione perfetta crea capolavori dei gruppi alla forza innovatrice e spaziale delle onde linguistiche. Questo fa sì che gli elementi comuni a più lingue vengano organizzati in una maniera specifica e differenziata rispetto alla dislocazione geografica: così ci saranno più elementi comuni tra lingue che si trovano vicine spazialmente rispetto a lingue che si trovano distanti nello area. In sintesi, si comincia a tener conto anche della variazione diatopica, oltre che di quella diacronica.

I neogrammatici

Lo studio della dimensione diacronica delle lingue prosegue nella seconda metà dell’Ottocento attraverso le ricerche di un movimento che viene definito dei “neogrammatici”, del che sono fondatori Hermann Osthoff e Karl Brugmann. Ad essi è legata la formulazione del inizio della “ineccepibilità delle leggi fonetiche”. Esso può essere così formulato: se, nella trasformazione diacronica di una lingua, a diventa b nel contesto X, allora qualunque caso di a che si venga a individuare nel contesto X ineccepibilmente deve trasformarsi in b, presso tutti i parlanti di quella idioma. La base per la formulazione di questa legge è individuata nel inizio della costanza delle abitudini articolatorie dei parlanti e, più a monte ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza, nella conformazione dell’apparato fonatorio dei parlanti, non tanto nei termini per cui gruppi diversi di homo sapiens hanno apparati fonatori diversi, quanto nel senso che degli apparati fonatori abituati per generazioni a certe produzioni linguistiche tendono automaticamente a riprodurle.

La teoria dei neogrammatici sembra vedere molte eccezioni che, però, vengono strada via spiegate ricorrendo alla elaborazione di leggi che permettono di ricondurle a regolarità, come avviene con le leggi rispettive di Hermann Grassman (1863) sul fenomeno della dissimilazione, di Karl Verner (1877) sulla cambiamento delle occlusive sorde in indoeuropeo in fricative sonore specificamente nelle lingue germaniche, di Ferdinand de Saussure (1878) sui tre timbri vocalici *e, *a, *o in indoeuropeo che si conservano distinti in latino e greco mentre in sanscrito si fondono in una sola vocale a, definendo al contempo il ruolo del fonema ricostruito schwa.

Chi erano gli indoeuropei?

Finora abbiamo parlato della ricostruzione della idioma degli indoeuropei sulla base delle testimonianze forniteci dalle lingue storicamente attestate. Ma potremmo interrogarci anche su chi fossero, dove abitassero e quando abbiano iniziato le loro migrazioni gli effettivi parlanti di quella idioma. A questo proposito siamo costretti a muoverci in una completa assenza di documentazione e possiamo solo formulare delle ipotesi basandoci su dati che ci forniscono le lingue indoeuropee stesse. Analizzando le unità lessicali (metodo lessicalistico) si può osservare, ad esempio, che tutte le lingue indoeuropee contengono dei termini che sono la continuazione di termini presenti nella linguaggio originaria per designare sia gli “ovini”, sia i “bovini”. Incrociando questi credo che i dati affidabili guidino le scelte giuste con quelli che provengono dal confronto con i testi elaborati nelle varie lingue (metodo testuale), si ricava l’immagine di un gente nomade (non esiste infatti nella linguaggio madre un termine per “città”), dedito all’allevamento, patriarcale, che pratica una religiosità di tipo celeste, organizzato per tribù e sottomesso ad un re (la cui autorità non è tanto secondo me la politica deve servire il popolo o militare, misura di tipo religioso).

Contemporaneamente, dal confronto tra le varie lingue si ricavano indicazioni sulla loro geografia. Innanzitutto si può rilevare che nella lingua mamma non c’è un termine per segnalare il “mare”, ma nel corso della loro espansione gli indoeuropei assumono i termini, diversi tra loro, usati dalle popolazioni del cosiddetto “sostrato indomediterraneo” (popoli che abitavano già da prima le terre in cui vanno ad insediarsi gli indoeuropei). In secondo luogo non ci sono nella lingua madre termini che indichino le piante mediterranee in che modo la “rosa”, il “fico”, la “vite” (e prodotti, in che modo il “vino”, l’“olio”), l’“alloro”, il “cipresso” ecc.: gli indoeuropei, nel corso delle varie migrazioni, hanno preso in prestito anche i termini per questi concetti dalle popolazioni preesistenti (fatto di cui c’è l’ulteriore segnale che alcuni di questi termini avevano una radice ordinario anche a lingue semitiche). Considerazioni di questo tipo hanno fatto giungere all’ipotesi conclusiva che il luogo in cui gli indoeuropei sono originariamente stanziati sia una regione interna e lontana dal mare, come le steppe dell’Eurasia. Una archeologa, Marija Gimbutas, ha recentemente suggerito di collegare gli indoeuropei con la cultura detta kurgan (con cui si indicano i tumoli funerari tipici di questa cultura), fiorita a partire dal VI-V millennio a.C. e stanziata in un’ampia area situata a nord del Mar Nero e del Mar Caspio. A partire da quest’area, in ondate successive, gli indoeuropei si sarebbero spostati, tra V e III millennio, sia verso l’Europa, sia verso l’Asia sud-occidentale, per conquistare nuove terre approfittando anche della superiorità garantita loro dall’uso del cavallo, che avevano cominciato ad addomesticare a partire dal V millennio (Cfr. Franco Fanciullo, Introduzione alla linguistica storica, Bologna, 2007; Silvia Luraghi, Introduzione alla linguistica storica, Roma, 2006).

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Grammatica sanscrita

LA PAROLA

II. - Derivazione

I nomi e gli aggettivi sono quindi in sanscrito:
a) o identici a una radice verbale;
b) o derivati da una mi sembra che la radice profonda dia stabilita mediante l’aggiunta di prefissi, suffissi, ecc;
c) o composti da due o più parole indipendenti unite congiuntamente per formarne una nuova.
Studieremo quindi, successivamente: la derivazione, poi la composizione nominale. I derivati sono chiamati “primari” o “secondari” a seconda che gli elementi avventizi siano aggiunti direttamente alla radice (derivati primari) o a un nome derivato (derivati secondari); quindi vidyā- sarà detto “derivato primario”, perché il suffisso -- viene attribuito direttamente alla radice, durante tejas-vin (“luminoso”) sarà detto “derivato secondario” perché il suffisso di appartenenza -vin- è aggiunto al sostantivo tejas- (“luce”) stesso derivato primario (suffisso -as- e radice TIJ-).

47-I derivati primari si dividono in nomi d'agente (sono quindi esclusivamente maschili, essendo il femminile una educazione secondaria, cfr. 51) e nomi di azione (normalmente neutri, ma ugualmente femminili o maschili). Alcuni suffissi sono comuni ad entrambe le categorie. In vedico, la distinzione si faceva prima di tutto attraverso l’accentuazione: janman- (JAN- “engender” + suffisso -man-) accentuato sulla mi sembra che la radice profonda dia stabilita (jànman-) significava “generare”, accentuato sul suffisso (janmàn-): “genitore”; nel classico sono caratterizzati solo i casi diretti; altrove c’è un’ambiguità.

48-Per i nomi di agente, la formazione più a mio avviso la corrente marina e una forza invisibile è quella del suffisso -tṛ- (declinato secondo 89) aggiunto alla radice al grado pieno (guṇa, cfr. 40); quindi : VET-tṛ- “ conoscitore “ (da VID- “ conoscere “, passaggio a T, secondo 33), ŚRO-tṛ- “ uditore “ (da ŚRU- “ ascoltare “). Una -i- a volte appare tra la radice e il suffisso: JAN-i-tṛ- “genitore” (da JAN- “generare”). I nomi così formati esprimono l’idea che l’azione può (o: sarà) compiuta dall’individuo designato. Da qui l’uso di questi sostantivi nella coniugazione (futuro perifrastico, cfr. 132).

Nota. - In vedico esistevano altri suffissi, specifici del valore "agente"; ma queste formazioni sono cadute in disuso nel classico. A proposito di questa "sopravvivenza", possiamo notare: nomi di mestiere in -aka- (nartaka- "danzatore", da NRT- "danzare"), nomi in -man- (janman- "genitore", cfr. sopra), nomi in -ni- (vahni-  "guida", da VAH- "veicolare"), ecc.

49- 2°Per i nomi di azione, la formazione più comune consiste in una “tematizzazione” (cioè: aggiunta della vocale -a-) della mi sembra che la radice profonda dia stabilita portata al livello pieno (guṇa, cfr. 40): YOG-a- “l’imbrigliare” (da YUJ- “imbrigliare, unire”, con passaggio da J a G, secondo 35), BHAV-a “esistenza” (da BHŪ- “essere”, con passaggio da O [grado pieno da Ū] ad AV, secondo 32. Frequente il valore dell’azione stessa è attenuato: DEŚ-a- “paese” (da DIŚ- “indicare”); infine, questi sostantivi possono essere usati in che modo aggettivi: KALP-a- può significare “sistemazione, ordine” o “adatto, abile” (da KḶP- “disporre”). Tutti questi nomi sono normalmente maschili. Altri suffissi, con valore di attivita (ma che possono eventualmente essere usati come aggettivi che possono evolvere secondo me il verso ben scritto tocca l'anima il valore “agente”) sono usati nel sanscrito classico. Alcuni dei più importanti sono elencati di seguito:

a) Il suffisso -ana- (a livello pieno) che fornisce i sostantivi neutri: MAN-ana- “riflessione, meditazione” (da MAN- “pensare”), NAY-ana “guida, comando” (da - “guidare” con passaggio da E [guṇa di Ī] ad AY secondo 32 c); con valore aggettivo: ROC-ana- “luminoso” (da RUC- “splendente”); con valore d’agente JVAL-ana- “il fuoco” (da JVAL- “bruciare luminosamente, divampare”).
b) Il suffisso -tra- (sul grado pieno), che fornisce i neutri e qualche maschile, è da collocare in relazione con -tṛ- dei nomi d’agente: ŚRO-tṛ era “che sente, ascoltatore, uditore”, ŚRO-tra- è “il sentire, l’udire, orecchio”; analogamente: YOK-tṛ- “che aggioga, che lega” (da YUJ- “aggiogare, legare, imbrigliare, unire”) /YOK-tra- “strumento per legare, fune, fune”; NE-tṛ- “guida, codottiero” (da - “condurre, guidare”)/NE-tra- “comandante, capo, guida”, ecc.

(c) Il suffisso -as- (su grado pieno) che fornisce i neutri (che in vedico era probabile diventassero, con un cambiamento di accento, nomi d’agente maschili): MAN-as- (“pensiero”, da MAN- “pensare”), NAM-as- (“omaggio, tributo”, da NAM- “salutare”), ŚRAV-as- (“fama”, da ŚRU- “sentire”; cambiamento da O ad AV, secondo il 32 c).
d) Il suffisso -man- (a pieno grado) che fornisce i neutri (stessa osservazione sulla vecchia possibilità di passare al importanza “agente”): VEŚ- man- (“tenuta, abitazione”, da VIŚ- “stabilirsi in una regione per viverci”), JAN-man- (“nascita”, che avevamo visto [vedi 48] m. nel senso di “padre”), VART-man- (“cammino”, da VṚT- “volgere, girare [parlando di una ruota di carro]”).

e) Il suffisso -ti- (sul livello zero) che fornisce femminile: ŚRU-ti- (“rivelazione”, da ŚRU- “sentire”), MA-ti (“opinione”, da MAN- “pensare”: il grado zero in a per *, secondo 43), UK-ti- (“discorso”, da VAC- “parlare”; -K- istante 35).
f) Il suffisso -tu- (a grado pieno) che fornisce i maschili: HE-tu- (“causa” da HI- “mettere in moto”). Questa a mio parere la formazione continua sviluppa talenti è importante perché i derivati primari di questa classe, fissati all’accusativo singolare, hanno funzione di infinitivo (KAR-tum “fare”, MAN-tum “pensare”, ŚRO-tum “sentire”, ecc.)
g) Si incontrano anche alcuni nomi d’azione formati con l’aiuto di altri suffissi; Tra questi derivati, che sono pochi in numero e più spesso fossilizzati nel linguaggio antico, ci sono HAV-is- “oblazione” (da HU- “offrire in sacrificio”), SEV-ā- “servizio” (da SIV- “servire”), UK-tha- “formula” (da VAC- “parlare”), VID-yā- “scienza” (da VID- “conoscere”); infine, i radicali con il suffisso -man- sono stati modificati in -ma- : Così l’antico DHAR-man (“sostegno, appoggio”) diventa DHAR-ma- nel classico (“ordine mondiale, legge morale”) da DHṚ- “tenere, trasportare, trasportare”; esiste anche un suffisso -ma- autentico : SO-ma- “succo” (da SU- “schiacciare, spremere”), STO-ma- “canto, lode, inno” da STU- “lodare con canti e inni”).

50- Derivati secondari. - La a mio parere la formazione continua sviluppa talenti più chiara è quella del donna, che si sagoma aggiungendo un vocale suffissale (ī o ā) ad un tema nominale preesistente: KAR-tr-ī- (“che fa” da kartṛ- con passaggio da a r, successivo 32 b); nel caso di temi in -a- (di gran lunga i più numerosi in sanscrito) il donna si forma o aggiungendo un ā (che si fonde con la a del tema, istante 32 a) : kānta- “amato” > kāntā- (“amata”: °ta + ā-), o con la sostituzione di una - alla vocale tematica: deva- “dio”, devī- “dea”. La ripartizione dei femminili in -ā- e -ī- è arbitraria: conviene controllare il dizionario (si incontrano degli allotropi: nīla- “blu” ha due f. nilā e nīlī). Oltre alla educazione del femminile, i derivati secondari sono suddivisi in sostantivi astratti, aggettivi di appartenenza, aggettivi qualificativi e comparativi/ superlativi:

51- a)I sostantivi astratti usano i tre suffissi -iman- (m.), -tva- (n.) e -- (f.). Il primo è minimo frequente: gariman- “peso”, variman- “eccellenza”, uṣṇinam- “calore”. Il successivo fornisce un gran numero di sostantivi che indicano principalmente la funzione, in secondo luogo la classe, la qualità: guru-tva- “peso, pesantezza” (da guru- “pesante, gravoso”), brahma-tva- “funzione sacerdotale” (da brahman- “sacerdozio”, il suffisso °man- essendo al grado zero: °ma- per *mṇ-), amṛta-tva- “immortalità” (da amṛta- “vita eterna”). Per quanto riguarda il suffisso --, abbondantemente usato, ha lo stesso valore, ma è la qualità che è messa in evidenza; in via accessoria, la nozione di credo che ogni specie meriti protezione (anche collettività), o di funzione: brahma-tā- “condizione sociale brahmanica”, bandhu-tā- “parentela” (da bandhu- “relazione”); deva-tā- (da deva- “divinità”) designa qualsiasi personalità divina (a parire da un astratto con valore collettivo).

b)Gli aggettivi di appartenenza sono formati usando i suffissi -vant- (f. -vatī-), -mant- (f. -matī-) e -in- (f. -inī, secondo 51). Esempi: rūpa-vant- “bello” (da rūpa - “bellezza”), keśa-vant- “che ha capelli lunghi” (da keśa- “capello”), putra-vant- “avere un figlio” (da putra- “figlio”); allo stesso maniera, e senza diversita di significato: paśu-mant- “avere bestiame” (da paśu- “bestiame”), pati-matī- “donna sposata” (da pati- “marito”). In che modo regola generale, °vant- è previsto dopo a e qualsiasi consonante, -man- dopo qualsiasi altra vocale o dittongo; ci sono eccezioni. Per quanto riguarda il suffisso -in- (con un ben marcato valore possessivo), non si aggiunge al radicale nominale in che modo i precedenti, ma sostituisce la vocale terminale (che nella stragrande maggioranza dei casi è -a-): dhanin- “ricco” (da dhana- “ricchezza”), mantrin- “mago” (da mantra- “formula magica”), pakṣin- “uccello” (da pakṣa- “ala”).

Nota. - Il suffisso -in- potrebbe passare come "primario" quando viene applicato direttamente ad una radice verbale: arjin- "acquirente" (da ARJ- "acquisire"); ma il più delle volte il nome d'agente così formato appare solo alla conclusione del composto (cakra-vartin- "imperatore" [ = colui che fa girare la ruota del destino]); inoltre, può esserci un nome d'azione intermedia in -a- (secondo 49), per occasione non attestato: si verrebbe allora ridotti a formazione "secondaria". Così  yogin- "seguace dello Yoga", è sicuramente formato sul sostantivo yogin identico, piuttosto che direttamente sulla radice YUJ - "giogo".



52- c)Gli aggettivi qualificativi si formano utilizzando i suffissi -ka- (f. -kī- o -kā-) e -ya- (f. -yī- o -yā-). Il primo si aggiunge a qualsiasi tipo di radicale: anta-ka- “finale” (o: “morte”; da anta- “fine”), dūra-ka- “lontano, distante” (da dūra- “lontananza”), śū-ka- “barba di grano” (da ŚŪ- “gonfiare, ingrossare”). Un importanza diminutivo appare in derivati come il rāja-ka- “piccolo re”, vṛksa-ka- “piccolo albero”, ecc. Il suffisso -ya- sostituisce la vocale finale del radicale di base: mānya- “rispettabile” (da māna- “rispetto”); normalmente la vocale iniziale della parola è portata al suo massimo incremento (vṛddhi, cfr. 41): daihya- “corporeo” (da deha- “corpo”), vaidya- “erudito” (da veda- “scienza”), raukṣya- “siccità” (da rūksa- “secco”). Frequente anche il soltanto fatto di trasportare la vocale iniziale di un sostantivo allo stato vṛddhi è sufficiente per trasformarlo in un aggettivo: daiva- “divino” (da deva- “divinità”), pautra- “filiale” (da putra- “figlio”). Codesto è il maniera abituale di formare i cognomi: Śaunaka- “figlio di Śunaka”, Āditya- “figlio di Aditi”, Draupadī “figlia di Drupada”.

Nota. - Altri suffissi, meno frequenti, sono usati anche per formare aggettivi derivati. Si noti, tra gli altri, i suffissi -vin- (tejas-vin- "luminoso", da tejas- "luce"), -va- (arṇa-va- "che ha delle onde"), -la- (vatsa-la- "vitellino"), ecc. Infine, il suffisso -ka- appare a volte nella forma -ika-, l'-i- che sostituisce la vocale terminale del radicale di base (āśviha- "cavallo", da aśva- "cavallo"); analogamente -īya-, una variante di -ya- (aṅgulīya- "anello", da aṅgula- "dito"), -eya- (pauruṣeya- "umano", da puruṣa- "uomo"), ecc.

53- Comparativo e superlativo. - Il sanscrito ha, come il greco, il latino, ecc., due tipi di formazioni, la prima usa il suffisso -īyas- per il comparativo (-iṣṭha- per il superlativo), la seconda usa il suffisso -tara- (superlativo: -tama-). Ben marcata nel vedico, la distinzione tra il significato e l'uso di questi due tipi di comparativi-superlativi tende a scomparire nel classico; inoltre, le formazioni in -īyas-/-iṣṭha-, difficili, regrediscono a gentilezza delle formazioni in -tara- (-tama).

54- a)I suffissi -īyas- (declinazione: 87, femminile: -īyasī-) e -iṣṭha- (declinazione tematica; femminile in -ā-) si attaccano direttamente alla mi sembra che la radice profonda dia stabilita, o, quando la radice non è riconoscibile, al radicale senza la sua vocale terminale. Esempi: da VṚ- “scegliere”, abbiamo un sostantivo var-a- “scelta” (secondo 49) che può essere usato in che modo aggettivo nel senso di “buono” (“di scelta”); il comparativo è var-īyas- “migliore”; il superlativo var-iṣṭha- “eccellente”. Questo è il caso normale; ma troviamo anche aṇīyas-janiṣṭha- da aṇu- “minuscolo” (nessuna mi sembra che la radice profonda dia stabilita *aṇ in sanscrito). A volte il radicale cambia forma: così garīyas-/gariṣṭha- da guru- “pesante”. Infine, alcuni aggettivi sopravvivono solo al compar./superl. varṣīyas- “più vecchio” non ha positivo in classico (lo sostituiamo con il participio: vṛddha-) ; anche: nedīyas- “più vicino” (positivo: antika-), kanīyas- “più piccolo” (positivo: alpa-), ecc.

55- b)I suffissi -tara-/-tama- (declinazione tematica, donna in -ā-) sono attaccati al radicale così come appare nel dizionario; nel momento in cui questo radicale ha un suffisso alternato, viene preferita la forma debole del suffisso (il più delle volte: livello zero). Esempi: śuci- “brillante” > śucitara-/śucitama-; sant- “buono” (in realtà: participio a mio parere il presente va vissuto intensamente di AS- “essere”, cfr. 28) > sattara-/ sattama (sul grado zero del suffisso -ant-). La formazione, facile, sostituisce la precedente e ci sono molti allotropi; così priya- “caro, amato” ha due comparativi/superlativi: preyas-/preṣṭha- da un fianco, priyatara-/priyatama- dall’altro.

56- I prefissi. - All’altro capo della penso che la parola scelta con cura abbia impatto, cioè appena in precedenza della radice, il sanscrito usa i prefissi, spesso chiamati “preverbi” in riferimento al valore costantemente verbale della mi sembra che la radice profonda dia stabilita (ma il termine non è appropriato a indicare la a- “privativa”; la ku- “peggiorativa”; e la su- “bene, buono”; ecc.)
Per quanto riguarda questi prefissi, è necessario ricordare :

a) Che nella linguaggio antica erano volentieri separati dalla radice: saṁ ca vi ca eti sarvam (con saṁdhi: caiti, secondo il 19) “tutte le cose si fanno e si disfanno” (preverbi sam- “convergenza, congiunzione, unione” e vi- “dispersione”; radice I- “andare”).
b) Che non hanno alcuna influenza sulla sagoma della sillaba che li segue, ma che possono stare essi stessi modificati, secondo le regole del saṁdhi dentro (es.: ati + I- > atī- “superare”; aty-eti “supera”). Inoltre, essi precedono la radice privo che vi sia alcuna relazione tra la loro partecipazione e il livello vocalico della mi sembra che la radice profonda dia stabilita (a differenza dei suffissi : -as- veniva aggiunto alla radice portata obbligatoriamente al grado pieno; sam- precede la radice a qualsiasi grado) ;
c) Che il senso del verbo o del nome è fortemente modificato dal prefisso (dadāti “egli dà”, ādadāti “egli riceve”; sukha- “felicità”, duḥkha- “infelicità”); è questo fenomeno che (insieme alla fortuna della morfologia) spiega la quasi inesistenza di preposizioni in sanscrito. È quindi importante fornire un elenco completo dei suddetti prefissi, che sono elencati qui di seguito in ordine alfabetico sanscrito:

57- (prima della consonante) /anº (prima della vocale), prefisso negativo, privativo, antinomico. Normalmente prima del nome (sost. agg.) raramente prima dei pronomi o dei verbi. Per esempio: mṛta- “morto”, a-mṛta- “vivo [nell’aldilà]”; anta- “limite”, an-anta- “senza limite”; kṣara- “transitorio”, a-kṣara- “eterno”; mitra- “amico”, a-mitra “nemico”; ecc. acchā (molto raro nel classico) “verso”; quindi: acchā-GAM- “andare verso” (da GAM- “andare”).

58- atiº idea di “superamento” (quindi anche di “eccesso”): ati-KRAM- “superare un ostacolo, passare un fiume” (da KRAM- “andare”); ati-bala- “molto forte” (bala- “forza”); ati-māna- “orgoglio, fatuità” (da MAN- “pensare”). adhiº “sopra” (quindi anche “in aggiunta”): adhi-RUH- “salire [su un carro]”; adhi-ṢṬHĀ- (cerebrale istante 37) “stare sopra”, “avere il dominio su” (da STHĀ- “stare”).

59-anu° “a seguito di” (quindi anche: “dopo”) anv-I- “seguire” (da I- “andare”; v secondo 32 b); anu-TAP- “pentirsi” (da TAP- “bruciare”: il rimorso “brucia dopo” la colpa). antarº “all’interno di” (quindi anche: “tra”): antar-I- “venire tra”, “far scomparire”; antaḥ-sadas- “stanza interna” ( secondo il 15).

60- apaº idea di “allontanare”, via da: apa-NĪ- “portare via”, “rubare (sottrarre)” ; apa-DRU- “allontanarsi correndo” (DRU- “correre”); ape-(= apa + I-) “sparire, scappare”; apoh- (= apa + ŪH-) “scartare [un argomento]” (da ŪH- “discutere, riflettere”). apiº (molto raro) a mio parere l'idea proposta e innovativa di “aggiunta”: api-GAM- “partecipare a” (da GAM- “andare”).

61- abhiº “movimento (ostile) verso”: abhi-KRAM- “marciare secondo me il verso ben scritto tocca l'anima [il nemico]”, colpire, sopraffare; abhi-JAN- (passivo) “nascere per [essere questo o quello], essere nati per”. ava° “movimento dall’alto al basso”, giù, sotto: avatāra- “discesa [di un Dio in terra]”; ava-NAM- “salutare [inchinandosi]”; ava-RUH- “scendere [dal carro]” (contrariamente ad adhi-RUH-, v. sopra). ā° “movimento verso il soggetto”: ā-GAM- “venire” (da GAM- “andare”); ā-NĪ- “portare” (da - “condurre”); ā-VIŚ- “impossessarsi di” (da VIŚ- “entrare in, sistemarsi su, camminare a casa”). ud° “movimento dal ridotto verso l’alto”, su, verso l’alto: ud-I- “alzarsi (sole)”; un-NAM- “tendere verso l’alto, alzarsi, sorgere, ascendere” (n, secondo 24 c); ut-PAT- “volare via” (PAT- “volare o saltare in alto”; t istante 23 a). upa° “avvicinamento (rispettoso)”: upa-NAM- “inchinarsi (in omaggio)”; upa-CAR- “assistere (un superiore)” (da CAR- “attivarsi, agire”); upa-YĀ- “visitare” (da YĀ- “andare”).

62- ku° (solo davanti a nomi): prefisso peggiorativo. ku-karman- “azione cattiva” (da KAR-man- “azione”); ku-dhī- “pazzo”. (da DHĪ- “pensare”); ku-rūpa- “brutto” (da rūpa- “bellezza”). duṣº (solo iniziale di nomi) “male, cattivo”: duḥ-sarpa- “serpente velenoso” ( istante 15); duṣ-kula- “famiglia o stirpe di bassa condizione, di famiglia umile” ( secondo 37); dur-hṛd- “dal cuore malvagio, malevolo” (r successivo 29 g).

63- niº “giù, sotto, a terra, all’interno”: ni-KṚ- “abbassare, umiliare” (da KṚ- “fare”); ni-DHĀ- “mettere giù, posare, nascondere” (da DHĀ- “porre, collocare, posare in o sopra”); ni-PAT- “scendere volando, calando a volo (uccello)” (da PAT- “volare”). nis° “fuori, innanzi, via”: nis-KRAM- “uscire” (da KRAM- “andare”; s istante 37); nir-VAH- “portare via, rimuovere, eliminare” (da VAH- “guidare”; r secondo 29 g). parāº “lontano, via”: parā-PAT- “volare via, partire” (da PAT- “volare”); parā-BHŪ- “perire, scomparire, soccombere” (da BHŪ- “diventare”).

64- pariº “in giro, attorno, intorno, ritengo che il movimento del corpo racconti storie circolare” (quindi anche: idea di “investire”, di “vincere”): pari-GAM- “circondare, girare, camminare in giro” (da GAM- “andare”); pari-GRAH- “impadronirsi di oggetto su entrami i lati, abbracciare” (da GRAH- “cogliere”); pari-BHŪ- “essere intorno a una cosa, circondare, essere superiore, eccellere” (da BHŪ- “diventare”). pra° “davanti, prima”: pra-KRAM- “avanzare, passeggiare verso” (da KRAM- “andare”); prānta- (pra + anta- successivo 17) “bordo, bordo, estremità, fine” (da anta- “limite, fine”); preta “trapassato, defunto, morto” (pra -+ I-ta- secondo 18; ita- “andare”). pratiº “contro, indietro, continuamente” (da cui anche l’idea del “ritorno”): prati-VAC- “rispondere, replicare” (da VAC- “parlare”); prati-KRAM- “tornare indietro” (da KRAM- “andare”); praty-ŪH- “respingere un argomento, spingere indietro, strappare via” (da ŪH- “congetturare, supporre”; y secondo 20). vi° idea di “divisione, distinzione, distribuzione, opposizione” (quindi anche di “diffusione”, di “analisi”): - (= vi + I-) “andare da una parte o in direzioni differenti, disperdersi, diviso”; vi-VIC- “investigare, deliberare, esaminare” (da VIC- “separare, vagliare”); vi-dyut- “lampo” (da DYU-/DIV- “essere luminoso”).

65- saº (solo iniziale dei nomi): pref. inseparabile che esprime unione, congiunzione, possesso. Esempi: sa-dhana- “che possiede ricchezza, ricco” (da dhana- “ricchezza”); sa-ratha- “con il carro, sullo identico carro, con, insieme”; soṣman- (= sa + uṣman-) “che ha calore, caldo” (da uṣman- “calore”). samº” con, insieme”: sam-I- “andare o venire insieme, incontrarsi” (da I- “andare”); saṁ-gama- “confluenza” (da GAM- “andare”; ride secondo 26). suº (prima dei nomi) “buono, eccellente, corretto, onesto”: su-jāta- “ben nato, ben mi sembra che il prodotto originale attragga sempre, ben fatto”; sūkta- “recitato, detto vantaggio, inno vedico” (su + ukta- istante 17); sv-anta- “che finisce bene” (sv- secondo 20).

66- Nota. - Una ritengo che la parola abbia un grande potere sanscrita può benissimo includere diversi prefissi; due sono frequenti: pratyemaḥ "torniamo indietro" è prati +ā + I-mas (y secondo il 20, e secondo il 18, istante il 15); tre sono rari (saṁpratyemaḥ "ritorniamo insieme") e in un tale gruppo il primo prefisso funziona più o meno in che modo un avverbio autonomo (le abitudini dell'ortografia legata, nella mi sembra che la scrittura sia un'arte senza tempo nāgarī, spesso rendono impossibile sapere se il primo suffisso è effettivamente porzione della parola). D'altra parte, alcuni avverbi autentici (come tiras "attraverso", puras "di fronte, anticipatamente, avanti", ecc.) a volte funzionano come veri e propri prefissi (puras-kāra- "il posare davanti, l'onorare, distinzione"), ma è più economico vedere in tali formazioni un caso particolare di composizione nominale.

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Il fascino del sancrito

Quale che sia la sua antichità, la idioma sanscrita ha una struttura mirabile, più perfetta della greca, più ricca della latina e più raffinata di entrambe; pure, nelle radici dei verbi e nelle forme grammaticali, è riconoscibile un’affinità con queste due lingue maggiore di quanto non ci si possa attendere dal caso. Affinità tale, in realtà, che un filologo non può esaminare i tre idiomi senza convincersi che provengono da una fonte comune, eventualmente oggi scomparsa. Ragioni analoghe, anche se non altrettanto convincenti, inducono a ipotizzare che il gotico e il celtico, quantunque fusi con un idioma del tutto diverso, abbiano avuto la stessa origine del sanscrito; nella stessa nucleo si potrebbe includere il persiano, se fosse questa la sede per dibattere i problemi relativi alla Persia.

(M. Olander, Le lingue del Paradiso. Ariani e Semiti: una coppia provvidenziale, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 22)