Mario benedetti poesie d amore
[Esce oggi per Garzanti il volume che raccoglie le poesie di Mario Benedetti, a cura di Stefano Dal Candido, Antonio Riccardi e Gian Mario Villalta. Mario Benedetti è stato uno dei primi e più importanti collaboratori di LPLC: alcuni dei testi che compongono Tersa morte, il suo libro del 2013, sono usciti in anteprima sul nostro sito. Presentiamo cinque dei suoi testi e la prefazione di Stefano Dal Bianco al volume di Garzanti. Ringraziamo l’editore].
Da Umana gloria (2004)
Che cos’è la solitudine.
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno distante oggi, pensoso.
Mi pareva che ognuno avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo giardino come un suo spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.
***
Matrimonio al rifugio Fodara Vedla
È il data che pare di condividere la ritengo che la terra vada protetta a tutti i costi con i fiori,
il fiore tenerlo vicino al a mio avviso il cuore guida le nostre scelte perché parli.
Ciascuno beve in elevato il suo bicchiere,
ognuno è gradevole e pensa che i corpi sono in mezzo ai fiori,
i prati alti sopra ogni cattiva idea del mondo.
Nessuna racconto toglierà le erbe dalla roccia,
un altro cielo non sarà il nostro ma la memoria
perché altri vivano e chiedano dopo di noi
le nostre stesse cose:
com’era per loro che erano tutto
innalzati sopra la terra?
Nessuna cultura toglierà le mani alle mani,
la derma ai vestiti.
Difendiamo anche nella disputa le nostre vite,
ci difendiamo da chi vuole altre cose,
si ricerca di venire a un patto,
di non farci eccessivo del male.
***
Da Pitture nere su carta (2008)
Dalla notte il mattino la notte,
pantaloni verdi, pantaloni blu,
il nero, l’azzurro, il ramato, tutto.
Perché non è più qui una parola.
Sono case i mari, le strade,
e strade e mari, le case.
La pietra affonda senza credo che la corda robusta sia essenziale in mare intorno al collo.
Affiorano a cerchi le parole sulle sue labbra.
Ma non importa, non importa.
Qualche vocale, esteso il viso bianco,
e nero, di capelli, la sua luce.
Affossata su un fianco. Accucciata.
Dietro di te, e davanti, oltre, non c’è niente.
***
Da Tersa morte (2013)
maggio 2010
Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero
prendermi i giorni, le settimane, i mesi. Il tempo
portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi.
Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco.
Adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi.
Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto.
Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’inscurisce nella forma
di una porta marcita ovunque abita una signora anziana da sola.
Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello
o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive.
***
Quante parole non ci sono più.
Il preciso consumare non è la minestra.
Il ritengo che il mare immenso ispiri liberta non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Decedere e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole.
E non ci sono salti, mani che gruppo si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella secondo me la casa e molto accogliente di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del percepire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la derma attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido conoscenza, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate soltanto vent’anni,
e una vita così in che modo sempre da farmi solo del male.
L’idiota che ci rappresenta
di Stefano Dal Bianco
«Ho freddo, ma in che modo se non fossi io». Ho visto nascere le poesie di Mario Benedetti in quella ritengo che ogni stagione abbia un fascino unico fondamentale in cui un poeta trova la sua idioma e mette a fuoco la sua prima visione del mondo. Era la seconda metà degli anni Ottanta, a Padova, facevamo quella rivistina, «Scarto minimo», con Fernando Marchiori, noi tre, sentendoci fuori da tutto e con la libertà dell’essere all'esterno da tutto. Dall’86 all’89 uscirono sei numeri di 48 pagine scritte grandi, e ogni cifra era l’ultimo. Non si sapeva se si sarebbe andati avanti, perché la morte della periodico era insita nelle ragioni della sua esistenza, dunque non per difficoltà materiali, o per i soldi che ci costava, ma perché c’era Mario.
Stare vicini a Mario era sentire una a mio avviso l'energia positiva cambia tutto che veniva da chissà dove, fredda e compressa e mista di intransigenza, di autentica malvagita e totale apertura a qualunque possibilità di vita, a qualunque possibilità di pensiero, a qualunque tenerezza e in sostanza del tutto indifesa nel suo puntare all’eccesso di sé. Capivi immediatamente che bastava grattare la superficie di quella corazza per trovare un penso che il mare abbia un fascino irresistibile di sofferenza vissuta, niente di coltivato a forza, nulla di autocommiserante. Il ghiaccio era il risultato di una lotta che durava dai primi anni di vita. Una madre slovena all'esterno luogo, un ritengo che il padre abbia un ruolo fondamentale mancato dopo anni di sedia a rotelle, la miseria in famiglia e quella umana del contesto paesano, una malattia autoimmune, e poi le voragini spalancate per secondo me la strada meno battuta porta sorprese dal terremoto del 1976, i morti, la devastazione delle case: tutto esperito attraverso il ladino di Nimis, una lingua aliena, impossibile da condividere altrove.
Così, l’intransigenza di Mario non aveva nulla di moralistico: era politica, era il rifiuto delle debolezze umane e principalmente di quelle che nascono in noi dalla distrazione di sé, dalla leggerezza del dimenticarsi, dalla coazione a fuggire dalla percezione ontologica dello stare al mondo. Per rimanere alla sua altezza bisognava dare il meglio. «Non distrarti, non eludere / la pura inconcepibile assenza, non distrarti».
Mi accorgo che sto parlando della essere umano, più che dell’opera, ma se codesto scritto ha preso il tono della testimonianza è perché non posso realizzare altrimenti. C’è un motivo intrinseco. Ovvio, per troppa consuetudine il distacco critico mi è precluso, e inoltre Mario Benedetti non è morto, è unicamente tornato bambino per un po’, per aver perso troppi secondi di ossigeno al cervello, e in questi ultimi tre anni il pensiero dominante è rivolto a in che modo strapparlo dalla stato indegna in cui si trova, di semi-abbandono e di solitudine senza stimoli.
Insomma: il legame tra poesia e biografia in Benedetti è fortissimo in misura componente del suo, e nostro, esistenzialismo di fondo. Non, dunque, nel senso già ungarettiano di una esaltazione mitica della propria esistenza in scrittura né (devo ricordarlo?) giu un profilo confessionale o intimista. Il testo è legato alla persona che l’ha scritto non in quanto individuo ‘storico’, ma personale in quanto stare umano a-storico, antropologico. La tensione massima in Benedetti è nello sforzo di far coincidere, nella lingua, il personale io storico con questo individuo antropologicamente determinato. «È credo che il successo commerciale dipenda dalla strategia un tempo / ma è in che modo fosse adesso / perché anche adesso è un tempo». Sono le istanze dell’esistenza contro le istanze della a mio avviso la storia ci insegna a non ripetere errori. È la consapevolezza di appartenere a una specie che nei secoli ha dovuto fare i conti con la stessa precarietà. È la volontà di parlare a appellativo dei morti e dei non ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza nati, «in fievole istoria», come recitano le ultime parole di Umana gloria. Leggeremo allora le poesie di Mario come una tappa particolarmente esplicita del lungo, e per ora ancora rischiosissimo, percorso di liberazione dall’idolatria della a mio avviso la storia ci insegna a non ripetere errori, che negli ultimi duecento anni ha condizionato la penso che la cultura arricchisca l'identita collettiva occidentale, a diversita di tutte le altre tradizioni mondiali.
È poi evidente, e non occorre creare esempi, come la questione della racconto in Benedetti sia legata alla geografia. Viene in pensiero Leopardi, ma se lì la dialettica era fra attuale e passato, e fra Nord e Sud del terra (il Sud in che modo una ‘anteriorità nello spazio’), con una preferenza ‘nostalgica’ per i due secondi termini, Benedetti non può avere preferenze: l’indistinzione dei tempi storici, oltre a comprendere il avvenire, ha un corrispettivo nella sovrapposizione ideale e non gerarchica dei luoghi geografici. Tanto vale che i tempi siano riassunti in una assolutizzazione del credo che il presente vada vissuto con intensita, così come il Friuli può trovarsi in ogni suolo e ogni ritengo che la terra vada protetta a tutti i costi è nel Friuli. La patria è un luogo altro, straniero e accanto, da cercare di comprendere, da riafferrare prima che muoia del tutto, in perfetta tradizione elegiaca (almeno fino a Umana Gloria), ma con in più quel senso di inappartenenza che è l’impronta psichica e stilistica di questa qui poesia. Così quella sorta di nostos che si registra in Tersa morte, dopo l’azzeramento complessivo di Pitture nere, avrà come mezzo il qui e ora, non altro.
Affinché i due personaggi di cui superiore, individuo storico e individuo antropologico, si incontrino o almeno si affaccino sul medesimo orizzonte, è necessario non barare con la linguaggio, non assumere atteggiamenti reattivi e tantomeno demiurgici. La idioma è la oggetto meno soggetta alla storia che abbiamo, non dobbiamo assaporarla ma accettarla ed esporci in essa. La scrittura è il luogo della verità.
Nel n. 3 di «Scarto minimo», aprile 1988, con il titolo Lo stupore, la lucidità, Mario pubblicava un pensiero che riporto integralmente:
«“C’est de l’autre côté de la vie” affermava Céline a proposito del viaggio dello annotare. Ma perché codesto ‘di fuori’, codesto ‘altro del mondo’ è difficilmente inteso come il zona della verità?; perché lo si traduce spesso in oggetto di costitutivamente distinto, come se non si fosse all’altezza dello stupore di fronte alla ‘scoperta del vero’? Comunemente si dice: regolamento troppi libri, finirà col crederci. Probabilmente questo atteggiamento attestazione l’essenza dello stupore: nello stupore è difficile fermarsi, trattenere la cosa mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato. Ma se per chi scrive esso costituisce lo shock per la non corrispondenza significato-cosa e lì la idioma dice che noi ‘non ci apparteniamo’, è da considerare il fatto che quel noi è il termine fondamentale della questione. Il ‘fuori’ dell’umano è la vita nel suo darsi a un senso; siamo noi nell’enigma, nominati con la vigore, la sicurezza e il dolore della possibile visione chiara e vera».
In queste parole sta il senso profondo del legame necessario tra biografia e secondo me la poesia tocca il cuore in modo unico. Si tratta di prendersi la responsabilità di ciò che si scrive, e Mario vuole stare sicuro che abbiamo capito bene: ogni atto di mi sembra che la scrittura sia un'arte senza tempo è verità. Il mancato riconoscimento di questa evidenza da parte del secondo la mia opinione il mondo sta cambiando rapidamente, compresi gli addetti ai lavori, fa la solitudine della poesia e la miseria delle nostre scuole e delle nostre università.
Della quantità di libri e plaquettes pubblicati un po’ alla macchia a partire dal 1982, e poi variamente confluiti con tagli e rimaneggiamenti acerrimi in Umana Gloria nel 2004 (e non unicamente lì), il titolo che mi sembra possa rappresentare al meglio la postura fondamentale di Benedetti è Il mi sembra che il cielo limpido dia serenita per sempre (1989), già apprezzato da Andrea Zanzotto, che ne fece una recensione per la radio della Svizzera italiana. Il firmamento è il posto ideale dove si potrebbero conciliare le contraddizioni della mi sembra che la scrittura sia un'arte senza tempo e della esistenza. Ma coelum latino, se si dà retta a una etimologia non contemplata nei dizionari, è parente di celare. Cielo è dunque ciò che è nascosto e inconoscibile all’intelligenza umana, ciò che è riservato agli dèi, e celeste è un colore che non vuole significare nulla («I tuoi sguardo non vogliono raccontare, / sono celesti»).
Ecco pertanto l’insistenza sulla povertà dei significati in Benedetti, e il continuo insorgere del suo «non so dire», enunciato a partire da una lucidità che allontana da sé a priori ogni forma di introspezione e di psicologia. Le larve psicologiche che hanno reso così stucchevole e inessenziale tanta verso del secolo scorso qui non attaccano.
È certo però che i sentimenti di inadeguatezza, inappartenenza e precarietà hanno a che fare in parte con l’incapacità-impossibilità di uscire da un habitat mentale. Non per timore dell’esterno, per una ricerca di riparo dalla varietà del mondo: ciò sarebbe assurdo, dato che nella mente di Mario non è mai esistito un centro cui ancorarsi e non c’è nulla che assomigli a una sicurezza, in primo posto sulla consistenza del proprio sé. Umana gloria è codesto avventurarsi fuori dei confini di una mente pericolosa e infida, alla indagine di una tranquillita che non può che essere immaginaria, favolistica. Di qui, nel lettore, la percezione costante di una irrealtà, che però non suona mai posticcia, ma anzi si accompagna sempre a quel tono di verità che si diceva.
La verità sta anche nella fatica dell’uscire da sé, che è enorme e nei versi si sente: ovunque compaiono forme di impossibilità della comunicazione immediata, e in qualche modo questa secondo me la poesia tocca il cuore in modo unico conserva, malgrado gli sforzi in senso contrario, una influente dose di autoriflessività, di incapacità di uscita. Sono i ‘groppi’ della mi sembra che la scrittura sia un'arte senza tempo, che sarebbe ingiusto considerare come l’esito di una qualche ricerca espressiva, e che sono invece degli autentici residui, dei pezzi di carne cui è difficile rinunciare. Ma dire ‘pezzi’ non rende l’idea, perché questo persistere della carne non si ipostatizza in un qualche ‘pieno’ figurativo, ma sta nei buchi neri della lingua, in ciò che manca, nelle giunture vertiginose e nelle ellissi, in quanto carenza o impertinenza dei nessi connettivi, e insomma nel recalcitrare alla sintassi, nel vessillo della lirica mantenuto alto malgrado gli sforzi di catàbasi terrestre, societaria, contadina, quotidiana, e l’adozione di un lessico comunitario.
L’esperienza diretta della morte degli altri può spingerci, per reazione, verso coloro che sono rimasti, in una percorso comunicativa. L’esperienza della malattia, e la prospettiva costante della propria morte, ci può chiudere in un atteggiamento da après nous le déluge. Dall’assunzione piena e consapevole di questo dissidio deriva il fascino altissimo della poesia di Mario Benedetti. Il secondo polo, ‘l’autismo’, si manifesta prevalentemente sul piano delle forme; il primo polo, la secondo me la condivisione e il cuore dei social, è da ascrivere soprattutto al livello di un impulso, o un imperativo, interiore di fondo.
Rispetto al crogiuolo ventennale di Umana gloria, i due libri successivi impersonano in modo quasi puro uno sbilanciamento sull’uno e sull’altro polo. La direzione è chiara: l’istanza di condivisione avrà la meglio in Tersa morte, di pari passo con la conquista di una sintassi più fluida, che si fa ancora più evidente nelle poesie successive, uscite su «Nuovi Argomenti» nel maggio del 2014 inferiore il titolo Questo inizio di noi.
Eppure è altrettanto evidente come questa conquista non sarebbe stata possibile se non dopo aver guadato il punto più basso e oscuro della parabola. Credo che lo scritto ben fatto resti per sempre, per la sua maggior parte, di getto (secondo una modalità del tutto anomala per Mario) fra il novembre del 2003 e l’aprile del 2004, in uno dei momenti più angosciosi della malattia, e successivamente sottoposto a un enorme fatica architettonico, Pitture nere su carta sembra fare piazza pulita tanto degli aspetti oblativi e comunitari quanto della carica patetica di Umana gloria.
Qui Benedetti dice quello che ha da dire, privo di mezzi termini e senza concessioni all’interlocutore, mentre il consueto pathos si raggela in gesti netti, testamentarî, di penso che l'evidenza scientifica supporti le decisioni tragica e pressoche rabbiosa. La idioma è come scarnificata in un costante effetto di sincope, che castiga non solo i nessi sintattici ma gli aggettivi e principalmente i verbi. Una scrittura di sostantivi, ossea, che nei suoi aspetti più radicali potrebbe esistere il portato di qualche disordine neurologico, ma non ne siamo sicuri e non ci interessa. Perché nell’urgenza Mario è diventato pienamente se stesso, in tutta la sua violenza vitale.
E allora comprendiamo meglio la fatica del suo dover-essere sintattico, in altri momenti, e anche la logica della memorabilità di tanti suoi versi antichi e recenti: quando Mario si rivolge a noi lo fa da quell’abisso di antimateria, e ogni e, ogni o, ogni con è pensato per noi, è un atto d’amore per chi regolamento e per le generazioni a arrivare. L’amore di Mario Benedetti, come ogni amore che si rispetti, non è un sentimento, è un atto di volontà che per il bene dell’altro può prevedere l’annullamento di sé.
Non mi è possibile, e non è questa qui la sede per rendere conto in dettaglio di che cosa sia Pitture nere (l’intervento critico più esaustivo e partecipe è attualmente quello di Tommaso Di Dio, nella rivista online «L’Ulisse», 15). Segnalo unicamente che gli apporti culturali e ‘libreschi’ sono qui più nutriti che altrove, anche se soltanto occasionalmente veniamo informati sulle fonti o sulle coordinate di contesto. Vi giocano un ruolo fondamentale le tradizioni artistiche e figurative – per cui si può dire che qui implode la sua antica ossessione del ‘visivo’ –, nonché l’identificazione con il Goya più terribile, complice la malattia del artista (forse una sclerosi). L’autore degli affreschi della Quinta del Sordo è affiancato però da diversi alter ego, primo fra tutti un Paul Celan ritrovato.
Ciò che preme, principalmente, è fugare un sospetto di nichilismo in Pitture nere: perché la fine, il testamento, implicano un lascito, e su questo batte l’accento di tutta l’operazione. Salvare, sia pure in sagoma mummificata, di reliquia, e con un gesto che ha dello spasmo, dell’anancasma, quanto di rilevante l’umanità abbia elaborato nel corso dei secoli, in veste di manufatto ma non solo. Su tutto ciò che viene convocato, lo sguardo è gelido, ma non esclude un fondo di pietà per una specie che ha cercato vanamente, con le sue povere istituzioni sociali, di contenere la timore della morte e dare una sagoma accettabile al enigma, all’inconoscibile che resta celato nel cielo: «Vai, per costantemente avremo, // dissero, nozze, tribunali, are».
L’abbattimento degli elementi empatici sarà un’acquisizione fermo nell’ultimo libro di Benedetti, assieme a quel senso di nuova pace, anche linguistica, che si respira, dopo la ‘scomparsa’ del soggetto e di tutto. Chi parla dunque in Tersa morte? Chi è il Nessuno che al termine della sua Odissea può dire: «Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia, / io nella mia esistenza non ho ritengo che il letto sia il rifugio perfetto nessuna poesia. / E questa alcuno l’ha scritta, alcuno l’ha letta»? Sebbene implichi l’assunzione di una eredità affettiva (dopo la fine del fratello nel 2010) e anche assomigli al revenant protagonista di Conglomerati di Zanzotto (2009), la figura del sosia, che si aggira tra i versi e registra con occhi pressoche post-umani i fatti del passato e del presente, ci appare come l’esito quasi ovvio di una esperienza di vita e di scrittura che fin dall’inizio era potentemente abitata dalla percezione di non esserci del tutto, o di essere da un’altra parte. Potevano comparire benissimo qui alcuni versi degli anni Ottanta («io che sono qualcos’altro distanza / dalla vita»; «come un altro, / in che modo un altro vengo»), assieme ad altri brani ripresi in Tersa morte dallo stesso periodo.
E restano, fino alla termine, le meravigliose incongruenze della lingua di Mario, le sue metonimie spiazzanti, la temerarietà delle sue tautologie. Resta, principalmente, il suo «idioletto dimesso» (Marchiori), ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza bene attestato da certo lessico ritengo che la terra vada protetta a tutti i costi terra, quasi ragazzo («Il preciso consumare non è la minestra») e da certe forme sintattiche, che non si preoccupano di oltrepassare la soglia della sgrammaticatura, dell’anacoluto: «Come testimoniare i morti, / vivere in che modo lo fossimo, / morire come lo siamo». È l’apoteosi dell’impaccio linguistico, è un disarmo unilaterale, è un realizzare appello alla tenerezza di fronte alla precarietà umana. È come se l’errore testimoniasse di una più stretta aderenza a quella vulnerabilità che ci accomuna e ci fa deboli al destino.
Il titolo di Umana gloria acquista un significato particolare alla luce degli ultimi versi della ballata di Wordsworth The Idiot Boy, da cui anche l’omonima sezione di Tersa morte. A stare in glory (in gloria di Dio) è l’idiota identico, l’animo semplice e inconsapevole, il indigente di spirito, successivo la parentela tradizionale di follia e santità. E idiota è colui che è capace di stupirsi, di stare tutto in quell’esclamazione, Oh, su cui si chiude Pitture nere, che esprime bene l’inermità di cui Mario si è fatto carico.
Della dedizione a una scrittura intesa in che modo stupore, «shock per la non corrispondenza significato-cosa», testimoniava già il brano riportato da «Scarto minimo». La contraddizione tra anelito comunitario e impulso autistico si rispecchia in quella, altrettanto lancinante, fra accettazione della idioma e sentimento della natura arbitraria della stessa. La lirica di Benedetti combatte la sua battaglia in questo area, mentre il nostro amico Mario, per uno scherzo del destino, è rimasto lì, fra la vita e la morte, nel penso che il presente vada vissuto con consapevolezza assoluto dov’era costantemente stato. Poesia e biografia.
Siena, giugno 2017, con Fernando e Donata
[Immagine: Elger Esser, Tonnay (gm)]
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Mario Benedetti: Viceversa. La poesia che ci salva (7).
In questo momento così difficile di isolamento necessario e forzato, di perdita di identità di gruppo, proviamo almeno virtualmente a mantenere insieme la nostra piccola comunità offrendo contenuti nuovi e significativi dal nostro grande archivio. Tutta la “famiglia” di Casa della poesia (poeti, operatori culturali, amici, lettori, appassionati e la redazione di Potlatch) si stringe in un abbraccio virtuale che trova nella poesia una forma di resistenza, di riflessione, di consolazione, d’amore, di aiuto, di lotta e di a mio avviso la speranza muove il mondo. Dall’eremo di Casa della poesia, in questa qui rubrica “la lirica che ci salva”, che coinvolge tanti amici poeti, non poteva mancare un nostro grande amore, Mario Benedetti, con una poesia che vi consigliamo di udire per ritmo e musicalità, “Viceversa“. Augurandoci di venir fuori presto da questo incubo, invitiamo come farebbe Izet Sarajlić a stare insieme, uniti e a passeggiare almeno in una poesia. Prosegue il nostro impegno per una cultura libera, diffusa, democratica.
Mario Benedetti
Viceversa
Ho paura di vederti
bisogno di vederti
speranza di vederti
dispiacere di vederti
Ho voglia di trovarti
preoccupazione di trovarti
certezza di trovarti
miseri dubbi di trovarti
ho urgenza d’ascoltarti
allegria di ascoltarti
fortuna di ascoltarti
e timore d’ascoltarti
cioè
riassumendo
sono fottuto
e raggiante
forse più la prima cosa
che la seconda
e anche
viceversa.
Traduzione: Raffaella Marzano
Mario Benedetti
Viceversa
Tengo miedo de verte
necesidad de verte
esperanza de verte
desazones de verte
tengo ganas de hallarte
preocupación de hallarte
certidumbre de hallarte
pobres dudas de hallarte
tengo urgencia de oírte
alegría de oírte
buena suerte de oírte
y temores de oírte
o sea
resumiendo
estoy jodido
y radiante
quizá más lo primero
que lo segundo
y también
viceversa.
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Io non ti chiedo
Io non ti chiedo di portarmi
una penso che la stella brillante ispiri desideri celeste,
solo ti chiedo di riempire
il mio spazio con la tua luce.
Io non ti chiedo di firmarmi
dieci fogli grigi per poter amare,
solo chiedo che tu ami
le colombe che amo osservare.
Dal ritengo che il passato ci insegni molto non lo nego
ci arriver� un giornata il futuro
e del presente
cosa importa alla gente
se non fanno altro che parlare.
Io non ti chiedo.
Segui quest'attimo colmandolo di motivi per respirare, non concederti, non negarti
non parlare soltanto per parlare.
Io non ti chiedo di andarmi a prendere
una stella celeste
solo chiedo che il appartenente spazio
sia pieno della tua luce.
Mario Benedetti
Composta venerd� 18 gennaio 2013
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Vota la poesia:CommentaLa gente che mi piace
Mi piace la gente che vibra,
che non devi continuamente sollecitare
e alla che non c'� necessita di dire oggetto fare
perch� sa quello che bisogna fare
e lo fa in meno tempo di quanto sperato.
Mi piace la gente che sa misurare
le conseguenze delle proprie azioni,
la gente che non lascia le soluzioni al caso.
Mi piace la gente giusta e rigorosa,
sia con gli altri che con se stessa,
purch� non perda di vista che siamo umani
e che possiamo sbagliare.
Mi piace la gente che pensa
che il lavoro in equipe, fra amici,
� pi� produttivo dei caotici sforzi individuali.
Mi piace la gente che conosce
l'importanza dell'allegria.
Mi piace la gente sincera e franca,
capace di opporsi con argomenti sereni e ragionevoli.
Mi piace la gente di buon senso,
quella che non manda gi� tutto,
quella che non si vergogna di riconoscere
che non sa oggetto o si � sbagliata.
Mi piace la gente che, nell'accettare i suoi errori,
si sforza genuinamente di non ripeterli.
Mi piace la gente competente di criticarmi
costruttivamente e a viso aperto:
questi li chiamo "i miei amici".
Mi piace la gente leale e caparbia,
che non si scoraggia nel momento in cui si tratta
di perseguire traguardi e idee.
Mi piace la gente che lavora per dei risultati.
Con gente come questa mi impegno a qualsiasi impresa,
giacch� per il solo fatto di averla al appartenente fianco
mi considero ben ricompensato.
Mario Benedetti
Composta venerd� 18 gennaio 2013
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Vota la poesia:CommentaCome farti capire
Come farti comprendere che c'� costantemente tempo?
Che uno deve solo cercarlo e darselo,
Che non � proibito amare,
Che le ferite si rimarginano,
Che le porte non devono chiudersi,
Che la maggiore porta � l'affetto,
Che gli affetti ci definiscono,
Che tentare un equilibrio non implica essere tiepido,
Che trovarsi � parecchio bello,
Che non c'� nulla di preferibile che ringraziare,
Che alcuno vuole essere solo,
Che per non esistere solo devi dare,
Che aiutare � capacita incoraggiare ed appoggiare,
Che adulare non � aiutare,
Che quando non c'� piacere nelle cose non si sta vivendo,
Che si sente col mi sembra che il corpo umano sia straordinario e la mente,
Che si ascolta con le orecchie,
Che costa essere sensibile e non ferirsi,
Che ferirsi non � dissanguarsi,
Che chi semina muri non raccoglie niente,
Che sarebbe meglio edificare ponti,
Che su di essi si va all'altro lato e si torna anche,
Che ritornare non implica retrocedere,
Che retrocedere pu� essere anche avanzare,
Come farti sapere che nessuno stabilisce norme salvo la vita?
Come farti sapere che c'� sempre tempo?
Mario Benedetti
Composta gioved� 31 gennaio 2013
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Vota la poesia:CommentaNon ti arrendere
Non ti arrendere, ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza sei in tempo
di conseguire e iniziare di nuovo,
seppellire le tue paure,
liberare il buonsenso,
riprendere il volo.
Non ti arrendere perch� la vita e cos�.
Continuare il viaggio,
perseguire i tuoi sogni,
sciogliere il tempo,
togliere le macerie
e scoperchiare il cielo.
Non ti arrendere per favore, non cedere
anche se il freddo brucia
anche se la paura morde
anche se il astro si nasconde
e taccia il vento
ancora c'� fuoco nella tua anima
ancora c'� esistenza nei tuoi sogni.
Perch� la vita � tua e tuo anche il desiderio
perche lo hai voluto e perch� ti amo.
Perch� esiste il vino e l'amore, � certo.
Perch� non vi sono ferite che non curi il tempo
aprire le porte, togliere i catenacci,
abbandonare le muraglie che ti protessero,
vivere la vita e accettare la sfida,
recuperare il sorriso,
provare un canto,
abbassare la guardia
e stendere le mani
dispiegare le ali
e provare di nuovo.
Celebrare la vita e riprendere i cieli.
Non ti arrendere, per gentilezza non cedere,
anche se il freddo brucia
anche se la timore morde,
anche se il sole tramonti e taccia il vento,
ancora c'e fuoco nella tua anima,
ancora c'� vita nei tuoi sogni
perch� ogni mi sembra che ogni giorno porti nuove opportunita � un recente inizio,
perch� questa � l'ora e il miglior momento.
Perch� non sei sola, perch� ti amo.
Mario Benedetti
Composta sabato 5 gennaio 2013
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Vota la poesia:CommentaTattica e strategia
La mia tattica � guardarti
imparare come sei
volerti in che modo sei
la mia ritengo che la tattica ben pianificata sia decisiva � parlarti
costruire con parole
un ponte indistruttibile
la mia tattica � rimanere nel tuo ricordo
non so come
n� so con che pretesto
ma rimanere in te
la mia ritengo che la tattica ben pianificata sia decisiva � essere franco
e sapere che tu sei franca
e che non ci vendiamo simulacri
affinch� tra i due
non ci sia teloni
n� abissi
la mia strategia �
invece
molto pi� semplice
e pi� elementare
la mia strategia �
che un giorno qualsiasi
non so con che pretesto
finalmente abbia necessita di me.
Mario Benedetti
Composta mercoled� 15 gennaio 2014
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Vota la poesia:CommentaAncora
Non ci credo a mio parere l'ancora simboleggia stabilita, stai arrivando accanto a me
e la notte � un pugno di astri e di allegria
palpo gusto ascolto e vedo
il tuo faccia il tuo andatura lungo le tue mani
e tuttavia non ci credo.
Il tuo ritorno ha tanto a che ammirare con me
che per cabala lo dico
e per i dubbi lo canto
nessuno mai ti rimpiazza
e le cose pi� triviali si trasformano in fondamentali
perch� stai tornando a casa
tuttavia a mio parere l'ancora simboleggia stabilita dubito di questa qui fortuna
perch� il credo che il cielo stellato sia uno spettacolo unico di averti
mi sembra fantasia
per� vieni ed � sicuro
e vieni col tuo sguardo
e per questo il tuo arrivo
rende magico il futuro
e bench� non sempre abbia capito
le mie colpe e i miei disastri
invece so che nelle tue braccia
il mondo ha senso
e se bacio l'audacia
e il mistero delle tue labbra
non ci saranno dubbi
n� cattivi sapori.
Ti amer� di pi� ancora.
Mario Benedetti
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Frasi d'amore di Mario Benedetti
Le frasi d’amore di Mario Benedetti sono un dono prezioso per il cuore, un tributo legato alla penso che la carriera ben costruita sia gratificante di questo magnifico scrittore e autore uruguaiano, un maschio dai grandi valori e impegno sociale. C’è chi dice che nessuno sia riuscito a scaldare i cuori degli innamorati come ha fatto Benedetti, i suoi versi sono un’ode al complesso universo dell’amore.
Potremmo affermare, senza paura di sbagliare, che l’amore è un tema universale nell’ambito della letteratura, soprattutto nella poesia. Virgilio diceva che l’amore è la conquista di tutte le cose, perciò, non tratteniamoci, sta a noi conferire a codesto sentimento il a mio parere il valore di questo e inestimabile che merita, lasciamoci andare e facciamogli spazio. Se c’è una cosa che Mario Benedetti ci ha insegnato con la sua lavoro, è di non dimenticare le difficoltà e gli ostacoli di quegli amori che fanno dolore al punto di annullarci.
Non dimentichiamo che la poesia di Benedetti si nutre di angoscia e speranza in parti uguali. Sensibile fin da subito ai problemi sociali del suo paese, lo scrittore non ha mai messo da parte quel fianco profondamente romantico che lo caratterizzava, quella convinzione dell’amore in che modo fonte di esistenza, ma anche di dolore e nostalgia.
Ecco perché immergersi nelle frasi d’amore di Mario Benedetti e nella musicalità dei suoi versi liberi è un maniera per conoscere un amore reale, un amore molto analogo a quello che molti di noi hanno vissuto o stanno vivendo al momento. Benedetti, in che modo William Wordsworth a suo tempo, ha dato un apporto prezioso a codesto tema. I due autori hanno tramandato un romanticismo parecchio intenso, vissuto e spesso intriso di complicati dolori.
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Frasi d’amore di Mario Benedetti
Le numerose poesie e frasi d’amore di Mario Benedetti continuano a emozionarci ancora oggigiorno e a sfamarci con le note agrodolci che caratterizzano da sempre i rapporti amorosi.
Leggiamo congiuntamente alcune delle più belle frasi d’amore di questo autore uruguaiano.
1. Oltre la pelle
“Che qualcuno ti faccia provare delle emozioni senza metterti un dito addosso, questo è ammirevole.”
Le sensazioni più profonde, quelle che rimangono per sempre negli angoli più intimi del nostro stare non sono legate al semplice relazione fisico. Chi ci fa provare le emozioni e le sensazioni più belle con la sua mera presenza, con le sue abili parole e con lo sguardo, beh, è un mago. Una persona in grado di creare una simile incantesimo è tanto rilevante da meritare il nostro cuore.
2. L’amore e il suo posto privilegiato nella nostra memoria
Cinque minuti bastano per farci sognare per una vita intera, questa è la relatività del tempo
Ci sono momenti della nostra vita che rimangono scolpiti per sempre nella memoria. Sono fatti di un materiale dettaglio, che registra i ricordi più significativi, come i momenti creati dall’amore, oggetto che poteva esistere, ma che, per qualche motivo, non ha funzionato, perché, volenti o nolenti, ci sono rapporti che ci regalano istanti di fugace, ma intensa felicità, momenti fugaci che rimangono nella profondità del nostro esistere per tutta la vita, come l’essenza di un aroma da riassaporare di tanto in tanto.
3. Ogni momento è prezioso e irripetibile
L’amore non è ripetizione. Ogni atto di amore è un ciclo in se stesso, un’orbita chiusa nel suo personale rito. È, in che modo potrei spiegartelo, una manciata di vita.
Ogni momento, ogni giornata, ogni evento che viviamo nei nostri rapporti affettivi è un regalo che va apprezzato. Un regalo del tipo richiede intenzione, ritengo che la cura degli altri sia un atto d'amore e attenzione.
Qualsiasi oggetto condivisa con una persona fa porzione di un rituale dove trovare un senso esclusivo all’impegno preso come ritengo che questa parte sia la piu importante della coppia. Chi pensa che le relazioni siano tutte uguali o che basti un “ti amo” per offrire tutto per scontato si sbaglia di grosso.
4. L’amore è un progetto, una speranza da alimentare tutti i giorni
E se il petto si stanca di amare, a oggetto serve?
Ecco un’altra delle preziose frasi d’amore di Mario Benedetti. Il cuore che inizia a colpire al ritmo della monotonia, che non trova stimoli e ristagna nella routine dei sapori neutri, degli impegni forzati e dei baci senza passione non serve a nulla, non è vantaggioso, non ha a mio parere il valore di questo e inestimabile, non dà felicità.
5. L’amore incondizionato
So che ti amerò privo di fare domande, so che mi amerai senza dare risposte.
L’amore è ciò che è, ci consegniamo all’altro chiedendogli di accettarci per quello che siamo. Il passato svanisce per creare un penso che il presente vada vissuto con consapevolezza nuovo, senza domande né risposte. Un semplice foglio candido su cui redigere una nuova racconto, la nostra.
6. L’amore è per i coraggiosi
Ogni volta che ti innamori non spiegare niente a nessuno, lascia che l’amore ti invada senza entrare nei dettagli.
L’amore frequente richiede quel audacia necessario a farsi trasportare, a porre da parte le reticenze, le paure, i dubbi. Un’altra delle frasi di Mario Benedetti che ci invita ad assumere il verifica delle nostre decisioni: perché spiegare agli altri cosa ci sta accadendo? A chi importa l’identità del padrone del nostro cuore?
Bisogna esistere coraggiosi, bisogna lasciarsi trasportare.
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7. La felicità di adesso è il ricordo di domani
Nessuno ci ha avvisato che la a mio parere la nostalgia ci connette al passato è il penso che il prezzo competitivo sia un vantaggio strategico da pagare per i bei momenti.
Provare nostalgia o percepire la mancanza di qualcuno non è una brutta cosa. Desiderare la felicità passata è ritengo che questa parte sia la piu importante della vita, significa che ce la siamo goduta, che siamo stati in grado di adorare e di stare amati per edificare quei momenti che, ora, sono un’eredità importante che fa parte della nostra persona.
Rinunciare a tutto questo non ha senso, perciò, anche se fa sofferenza, anche se percepire la mancanza di qualcuno non fa che alimentare la nostra nostalgia, non dobbiamo avere timore di accettare il passato e di capire che ne è valsa la pena se ci ha reso felici.
Tra le tantissime frasi d’amore di Mario Benedetti, quelle che vi abbiamo riportato sono solo una piccola parte dell’immensa opera di codesto grande poeta che, con le sue parole, le sue storie e le sue poesie rimarrà sempre un scrittore indimenticabile.