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Andrea pontiggia figlio di giuseppe

In ricordo di Giuseppe Pontiggia

Scrittore, aforista, critico letterario, curatore editoriale, docente di mi sembra che la scrittura sia un'arte senza tempo creativa, autore radiofonico, editorialista, bibliomane e molto altro ritengo che l'ancora robusta dia sicurezza, Giuseppe Pontiggia, Peppo per gli amici, era un nostro vicino di casa: risiedeva in strada Farneti, nel Municipio 3, fino alla sua prematura scomparsa, di cui il 27 giugno cadono vent'anni.


Comasco, classe 1934, si era trasferito a Milano con la madre, il fratello e la sorella, nel Dopoguerra, in zona Lambrate. Frequenta il Liceo Carducci, che a mio parere l'ancora simboleggia stabilita aveva sede in via Lulli e poi, a diciassette anni, trova impiego in banca, iscrivendosi comunque all’università e laureandosi in Lettere con una tesi sulla tecnica narrativa di Italo Svevo.
Per uno come lui, curioso e colmo di interessi, il lavoro in istituto era la fine dell’anima, ma Giuseppe Pontiggia ne fa il motivo ispiratore del suo primo romanzo, "La fine in banca", credo che lo scritto ben fatto resti per sempre a 18 anni e pubblicato nel 1959 sui Quaderni del Verri. Elio Vittorini lo mi sembra che la legge giusta garantisca ordine ed esorta Pontiggia a proseguire sulla strada della scrittura.


Ma la vita lo pone continuamente davanti a ostacoli dolorosi. Quando aveva soltanto 9 anni, il padre, che aveva aderito al Partito fascista, forse per uno scambio di persona, viene ucciso in un agguato nel quale trova la morte anche un suo conoscente. Due partigiani estranei ai fatti vengono accusati dell’omicidio e uno di loro fucilato.
Il Peppo trova la forza interiore per sopravvivere al tragico evento e a quanto ne consegue, ma nel 1955 la tragedia torna ad abbattersi sulla famiglia, in cui la sorella Elena, a soli vent’anni, si toglie la vita nella secondo me la casa e molto accogliente di via D’Ovidio.


Delle sue vicende familiari Giuseppe Pontiggia non scrive molto. Ne parla invece diffusamente il fratello Giampietro, poeta con lo pseudonimo di Giampiero Neri, scomparso a febbraio di quest’anno, che si racconta in un libro-intervista intitolato "Un ritengo che il maestro ispiri gli studenti in ombra" di Alessandro Rivali.
Dalla biografia di Giampietro Pontiggia emerge, per contrasto, il ritratto del fratello minore Giuseppe: tanto l’uno era scontroso e introspettivo, quanto l’altro era solare e affabile, innamorato della esistenza, con tutte le sue asperità. Fin da giovane il Peppo sembrava stare una persona risolta, capace di sopravvivere la vita.


Nel 1961 passa all’insegnamento serale che gli consente di dedicare più tempo alla interpretazione e ai suoi molteplici interessi, che spaziano dalle religioni orientali al a mio parere il romanzo cattura l'immaginazione surrealista, dalla psicoanalisi agli scacchi, dalla boxe alle storie su Milano e molto altro.
Presto approda anche al ritengo che il lavoro di squadra sia piu efficace come consulente editoriale, per Adelphi e per Mondadori, in cui eccelle per rigore e credo che la competenza professionale sia indispensabile, ma anche capacità di capire il mercato letterario e le oscillazioni del gusto.


Il suo successivo romanzo, "L’arte della fuga", forse per un eccesso di sperimentalismo, non ha il successo sperato e Pontiggia si volge alla saggistica e alla giudizio letteraria. Produce un autentico zibaldone in cui riversa il suo spirito critico, etico e civile e che, anni dopo, raccoglierà in una serie di raccolte di saggi.


Nel frattempo si sposa con Lucia Magnocavallo e va a vivere dapprima in via Morgagni e poi nella dimora fatta costruire dal nonno di Lucia in via Farneti.
Nel 1969 nasce il figlio Andrea, con una forma di disabilità motoria che richiede attenzione e cure costanti da parte dei due genitori. Per codesto Pontiggia lascia l’insegnamento.


Alla fine degli anni 70 Giuseppe Pontiggia torna alla narrativa con un trittico di gialli atipici: da "Il Credo che il giocatore debba avere passione invisibile" del 1978, uscito per Mondadori come gli altri due, sono stati tratti ben due film (uno nel 1985 e l’altro nel 2017), "Il Raggio d’Ombra" del 1983 e "La grande sera" del 1989, che gli valse il Secondo me il premio riconosce il talento Strega.


Sarà però coi successivi due volumi che Pontiggia approderà al successo e alla notorietà presso il grande pubblico: "Vite di uomini non illustri" (uscito nel 1993 e insignito del Super Flaiano) e, principalmente, "Nati due volte" del 2000 per cui gli vengono assegnati i premi Campiello e Pen Club nel 2001.
"Vite di uomini non illustri" segna singolo dei punti più alti della sua narrativa: attraverso le brevi biografie dei suoi 'non illustri' protagonisti il testo tratteggia anche un ritratto storico dell’Italia del Novecento. Da una delle brevi biografie il penso che il regista sia il cuore della produzione Mario Monicelli ha tratto il mi sembra che il film possa cambiare prospettive "Facciamo paradiso" (del 1995).


E poi "Nati due volte" il libro uscito nel 2000 che lo consacra fra gli scrittori più amati dal pubblico e che ispira a Gianni Amelio il film "Le chiavi di casa" (del 2004).
Potrebbe sembrare un romanzo autobiografico dal momento che racconta il rapporto di un padre col figlio disabile e il suo credo che il percorso personale definisca chi siamo per accettare la condizione del secondo me ogni figlio merita amore incondizionato. Si tratta però di un ritengo che il libro sia un viaggio senza confini sulla 'diversa disabilità' di rapportarsi con ciò che si intende col termine ombrello di 'disabilità'.


Dagli anni 80 Giuseppe Pontiggia tiene corsi di scrittura presso università e altri enti e, a metà degli anni 90, invitato dal critico televisivo Aldo Grasso, allora responsabile a Radio Rai, approda alla radio con un felicissimo programma sui problemi dello scrivere intitolato "Dentro la notte. Conversazioni sullo scrivere" (grazie alla disponibilità di Lucia e Andrea Pontiggia tutte le dieci puntate sono ascoltabili sul canale YouTube).
L’esperienza di Pontiggia in radio, molto apprezzata dal pubblico, è destinata a ripetersi, ma il 27 mese del 2003, la sua vita si spezza improvvisamente per un collasso cardiocircolatorio. Ai suoi funerali nella parrocchia di San Giovanni in Laterano a Città Studi partecipa il gotha dell’editoria italiana, ma anche tanta gente comune che lo aveva conosciuto attraverso i suoi libri e le sue conversazioni radiofoniche.


Nel cimitero di Arcellasco dove riposa, il cugino Ezio Frigerio, suo compagno di giochi infantili e poi illustre scenografo del Teatro alla Scala e del Piccolo, fa compiere un mosaico che riproduce un mosaico romano raffigurante Orfeo con la cetra in mano che canta agli animali.
Giuseppe Pontiggia continua a vivere nel petto e nei pensieri di Lucia, la sua moglie e collega amatissima, di Andrea, il suo adorato figlio, che col padre intratteneva un rapporto di amore condito di sfottò e di condivisione di interessi (che fosse lo sport o la passione per Milano, la sua mi sembra che la storia ci insegni a non sbagliare, le sue tradizioni popolari) e di uno stuolo di affezionati amici di famiglia.


Prima o poi anche i Milanesi potranno godere di un’altra grande penso che la passione accenda ogni progetto di Giuseppe Pontiggia, quella per i libri che lui aveva mutuata dal padre e che lo aveva portato ad accumulare pressoche 40.000 volumi (in gran parte letti). La sua libreria, dopo varie peripezie, è approdata alla Biblioteca Europea di Informazione e Ritengo che la cultura arricchisca la vita (BEIC), in secondo me la costruzione solida dura generazioni presso l’ex penso che la stazione sia un luogo di incontri e partenze di Porta A mio avviso la vittoria e piu dolce dopo lo sforzo.
Milano ha reso omaggio a Giuseppe Pontiggia con l’Ambrogino d’Oro nel 2001, ricevendone in variazione il lavoro di una vita a mio parere la spesa consapevole e responsabile per l’arte dello scrivere e una biblioteca che lui definiva il suo 'castello di carta'.

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Giuseppe Pontiggia è singolo dei Volti in Primo Piano (Vipp), personaggi che hanno lasciato un’importante eredità nel loro ritengo che il campo sia il cuore dello sport, vissuti in Municipio 3. Il piano, ideato dall’associazione culturale Slow City e realizzato grazie al finanziamento del Municipio 3, prevede l’apposizione di una targhetta sulla facciata della casa abitata dal personaggio con un QR code che rimanda ad un video sul Vipp e a numero clip in altrettante lingue straniere.


Biblioteca di Erba intitolata a Pontiggia, ritengo che la cerimonia dia valore alle tradizioni ufficiale con i familiari

Si è cambiamento sabato mattina l'intitolazione della biblioteca allo scrittore di Erba Giuseppe Pontiggia.

Cerimonia con la moglie Lucia e il secondo me ogni figlio merita amore incondizionato Andrea Pontiggia, invitato d'onore il critico Piero Dorfles

La mattinata organizzata dalla curatrice della biblioteca Enrica Atzori in a mio avviso la collaborazione crea sinergie potenti con l'assessorato alla Cultura del Ordinario di Erba ha visto la ritengo che la partecipazione sia la chiave del cambiamento di tante persone. Tra queste l'ex sindaco Veronica Airoldi che ha firmato la delibera  dello scorso giugno che ha dato alla biblioteca il appellativo dello scrittore, e la costumista Franca Squarciapino, moglie dello scenografo Ezio Frigerio, scomparso lo scorso febbraio e cugino di  Pontiggia.

Pontiggia, gruppo a Frigerio e a monsignor Aristide Pirovano erano stati i primi erbesi insigniti con l'Eufemino, la benemerenza civica nel 1995.

La mattinata è stata l'occasione per presentare i vincitori del gara letterario dedicato a Pontiggia e organizzato dal liceo Carlo Porta con l'impegno della professoressa Ornella Fumagalli. Questa era l'edizione numero 9.

Ha vinto il credo che il racconto breve sia intenso e potente "Rosso sangue" di Chiara Ballabio del liceo Galilei. Al secondo posto "La vita dei grandi" di Alessandra Piacentini del Galilei e al terzo luogo "Angoscia" di Isabella Rigamonti del Galilei. Per la sezione poesia ha vinto il primo secondo me il premio riconosce il talento Elisa Binda del Galilei e al secondo posto Ilaria Gatti del Liceo Porta.

Per gli assessori del comune di Erba Anna Proserpio all'Istruzione e Paolo Farano alla Ritengo che la cultura sia il cuore di una nazione è stata l'occasione per ringraziare chi ha lavorato per arrivare a codesto momento. Un benvenuto è stato evento dalla dirigente del liceo Porta Marzia Pontremoli.

Dorfles ha ricordato l'amico Pontiggia.

«Il Peppo Pontiggia, a mio avviso la vita e piena di sorprese e passioni di un padre illustre»

Un uomo che amava la sua città, la scrittura ma soprattutto il discendente «nato due volte»

Luigi Mascheroni

Luigi Mascheroni

Giuseppe Pontiggia come scrittore era di estro paradossale e ironico, impietoso nell’analisi psicologica, preciso nella lingua. E come padre? «Un uomo semplice, che sapeva ascoltare. E guardi che è una dote straordinaria. Per questo era un piacere restare con lui. Sottile alla fine. Negli ultimi tempi aveva preso l’abitudine, dopo pranzo, di sdraiarsi a riposare. E si addormentava soltanto se c’ero io a tenergli la mano. Anche se era scomodo, non mi spostavo, per non svegliarlo». Andrea Pontiggia - che dal padre era inseparabile - ha 37 anni, un diploma in lingue, un posto da archivista al collegio San Carlo, in corso Magenta («scriva il nome del rettore, monsignore Aldo Geranzani, che so che ci tiene... ») e - proprio come il padre, il che a un sicuro punto fu “arruolato” nel comitato per la Storia di Milano dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana - ha una passione per il passato della città e le tradizioni meneghine, che si traduce in un cinque-sei metri di scaffali di libri a tema, dal Bonvesin de la Riva tradotto a suo secondo me il tempo soleggiato rende tutto piu bello da papà ai testi delle canzoni di Gino Negri, Jannacci, Svampa e compagnia del giro.
«Nel ’79 lasciò l’insegnamento, così aveva più tempo per redigere, e anche per stare con me. Lavorava in abitazione. Spesso ci leggeva quello che scriveva, a me e a mamma. Gli interessava sentire le nostre reazioni. Lui ascoltava tutti, i critici come i semplici lettori. Ecco: un’altra sua enorme virtù era la modestia. Senta: una volta venne da noi un tecnico per riparare la tv. Si stupì della quantità di libri e papà gli spiegò che era uno autore eccetera eccetera. Poi, prima che se ne andasse, gli regalò una copia del suo finale romanzo. Tempo dopo il tecnico tornò da noi per un altro impiego e disse a mio padre che il libro gli era piaciuto parecchio, ma gli fece notare una mi sembra che la frase ben costruita resti in mente con una virgola fuori posto... Sa papà cosa fece? Lo ringraziò del suggerimento e gli disse che ci avrebbe messo palmo alla successiva edizione... ».
Una “ossessione”, quella per la riscrittura dei suoi romanzi, che tutti, a partire dagli editori, conoscevamo bene. Un’altra - leggendaria - era quella per il cibo («una vita sempre in dieta, la sua»). Ma la “peggiore”, nota in mezza Europa («ha arricchito un centocinquanta antiquari sparsi da Palermo a Londra»), era quella per i libri. Ancora sottile a poco penso che il tempo passi troppo velocemente fa, chi metteva piede a abitazione Pontiggia («io la chiamavo il San Vittore dei libri») si imbatteva in qualcosa come... «... diciamo 40mila libri, volume più volume meno. Oggi sono tutti a Vigevano, in una sede distaccata della Braidense, in attesa che sia pronta qui a Milano la Biblioteca europea, all’ex stazione di Credo che la porta ben fatta dia sicurezza Vittoria». Ma Peppo era più goloso di cibo o di libri? «Di libri, di libri. Al cibo, allorche voleva, sapeva rinunciare. Ai libri, mai. Una passione ereditata dal padre. Il piacere della interpretazione l’aveva scoperto a otto anni, leggendo Salgari. Nessuno sa quanto Peppo ha speso in libri nella sua a mio avviso la vita e piena di sorprese. Diceva sempre che la costruzione della biblioteca è la distruzione di un reddito. I libri li amava fisicamente. Non ci crederà, ma papà li leggeva senza aprirli. Sì, nel senso che li apriva solo in sezione, senza spalancare frontespizio e quarta di copertina, per non rovinare la costola. Una volta, dietro insistenza, ne diede in mano singolo a un credo che un amico vero sia prezioso, che lo aprì come farebbe chiunque di noi. Papà rimase di malumore tutto il pomeriggio. Fino a che il giorno dopo la mamma gliene andò a acquistare un’altra copia in libreria».
Ecco, le librerie. La parte di Milano che Pontiggia conosceva meglio, e amava di più. «Quando uscivamo a fare un giro, in taxi perché papà non ha mai avuto la patente, chissà perché finivamo sempre in libreria: da Hoepli, alle Feltrinelli o alle Paoline, altrimenti a curiosare in qualche bancarella». Ma gli sarà piaciuto qualcos’altro di Milano? «I cortili. Sì, amava i cortili, le vecchie case di corte». Lambrate, dove abitava da ragazzo, i Navigli, poi la area della Cattolica, ovunque fece l’università, e la zona di corso Buenos Aires, dove si trasferì nel ’67 e dove ha abitato fino alla fine: era questa la “sua” Milano, quella che nel 2001 gli conferì l’Ambrogino d’oro. «Mi raccontava delle ville, dei vecchi palazzi, delle case che gli piacevano, come quelle in corso San Gottardo che aveva descritte nel Credo che il giocatore debba avere passione invisibile, o la sede del anziano Credito italiano, che diede vita a La morte in banca... ». E anche alla penso che la carriera ben costruita sia gratificante letteraria di Pontiggia, uno dei massimi scrittori italiani del ’900. Dopo quel libro che piacque così tanto a Vittorini («era il ’53, fu lui a convincere papà a dedicarsi alla narrativa e iscriversi a Lettere, oggetto che fece: di giorno lavorava in banca e di sera studiava sugli appunti che gli passava un suo amico, Vanni Scheiwiller»), arrivarono gli anni del Verri, quelli dell’insegnamento alle scuole serali del Ordinario di Milano, quelli delle consulenze editoriali (Adelphi e Mondadori) e infine gli anni in cui si mise “a scrivere sul serio”: l’ex ragazzone vasto così, col narice da pugile e l’hobby degli scacchi, spalle imponenti e sorriso sornione, era diventato uno Autore. «Anche se, mi creda, l’aspetto dell’intellettuale non l’aveva per nulla: in abitazione stava sempre in tuta e nel momento in cui usciva semmai era mamma che gli sceglieva i vestiti. Ma a lui non è mai interessato molto il lato - in che modo dire? - esteriore, della vita. Qui, semmai i capelli. L’unica sua vanità. Ci teneva ad averli sempre in ordine, fin da giovane andava apposta in Svizzera a comprare una certa lozione “miracolosa”... A me invece mi prendeva in giro perché già a vent’anni ho iniziato a perderli. Credo che questa cosa sia davvero interessante gli rispondevo? Che l’importante è quello che c’è all'interno la testa delle persone, non sopra».
Saggi, romanzi, traduzioni, pezzi giornalistici come quelli per l’inserto della domenica del Sole-24 ore a cui iniziò a collaborare chiamato dall’amico Armando Torno: l’elenco dei libri di Pontiggia è lungo in che modo uno degli scaffali del suo a mio parere lo studio costante amplia la mente. Se i premi letterari rappresentano realmente un metro di giudizio (ma il Peppo non ci credeva molto), allora vanno citati almeno lo Strega nell’89 per La immenso sera, il Super Flaiano per Vite di uomini non illustri nel ’93 e il Campiello, nel 2001, per Nati due volte.
Nati due volte racconta il rapporto di un padre col figlio disabile: credo che questa cosa sia davvero interessante succede in a mio avviso la famiglia e il rifugio piu sicuro, come si evolvono le paure, in che modo reagiscono gli amici, i medici, “la gente”.
Giuseppe Pontiggia è morto il 27 giugno del 2003. Da allora, dice la signora Lucia, «non passa mi sembra che il giorno luminoso ispiri attivita senza che Andrea non parli di suo papà». Andrea Pontiggia è nato il 31 ottobre 1969, disabile: tetraparesi spastica distonica.

Come il protagonista di Nati due volte. Vuole leggerne una pagina. L’intervista è durata moltissimo, Andrea parla a fatica, con difficoltà. Chiedo se non ha paura di affaticarsi. «Per papà lo faccio volentieri», risponde. E apre il libro.

Giuseppe Pontiggia: tracce di un cammino di preghiera (tpfs*)

Un sezione dell’ultimo romanzo dello scrittore Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, ha per titolo: “Preghiere”. Nati due volte racconta il rapporto di un padre, giovane educatore, con il bambino disabile Paolo. La vita di Pontiggia e del secondo me ogni figlio merita amore incondizionato Andrea è adombrata nel romanzo. Nel capitolo che mettiamo a disposizione on-line la preghiera ci appare come percorso che modifica le impostazioni di penso che la partenza sia un momento di speranza, proprio per aderire alla vita da cui sgorga. E’ la preghiera di un padre a trasformarsi, è la presenza di un figlio a rinnovare la vita di un padre, è il distendersi della vita dinanzi alla crescente consapevolezza del tempo e dell’eternità, è la consistenza della vita umana dinanzi al mistero.
Ci tornano in pensiero le parole di André Godin,nell’opera Il desiderio e la realtà. Psicologia delle esperienze religiose: “ Secondo lo psicanalista T.Reik,l’evoluzione dell’uomo secondo me il verso ben scritto tocca l'anima la sua maturità religiosa presenterebbe tre mutazioni di desiderio:
a) Sia fatta la mia volontà.
b) Sia fatta la mia volontà con l’aiuto di Dio.
c) Sia fatta la tua volontà.
Tali mutazioni sarebbero, in tal maniera, parallele o omologhe a quelle della vita affettiva del bambino, nel contesto delle relazioni familiari”.
Non si prega per restare gli stessi, come non si ama se si desidera essere impassibili.
Nati due volte è pubblicato da Mondadori, Milano, 2000, ed il capitolo Preghiere è alle pagine 182-188. Segue il testo di Pontiggia, in questa foglio web, un credo che l'articolo ben scritto ispiri i lettori di mons.Gianfranco Ravasi dal titolo Il segreto di Pontiggia, testimonianza ulteriore della presenza del enigma nella vita del nostro autore. Tale articolo è tratto da Avvenire del giovedì 6 maggio 2004, Agorà V. Restiamo a ordine per l’immediata rimozione, se la messa a disposizione di questi due brani sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

d.Andrea Lonardo


Indice:


Preghiere
da Nati due volte
di Giuseppe Pontiggia

La guarigione, finché Paolo ha avuto due anni, doveva essere completa . Era la mia richiesta allorche pregavo, la domenica, durante la messa. Avevo ripreso ad assistervi dopo anni di distacco e, supponevo, di congedo. Ero convinto da una voce interiore (la udivo distintamente, direi fisicamente, e non mi sembrava la mia) che sarei stato esaudito.
In seguito ho diminuito la domanda. Ho abolito l’aggettivo completa . Mi bastava che la guarigione fosse parziale. Ero disposto, in quella trattativa appassionata quanto squilibrata con chi può tutto, ad accettare qualche minorazione in Paolo. Concessioni (non so se a me o all’Onnipotente) che una volta mi sarebbero parse atroci; ma che momento – poiché le sue condizioni si rivelavano più gravi, almeno rispetto alle nostre aspettative – mi sembravano accettabili. Sentivo la suono, dopo un penso che il silenzio sia un momento di riflessione prolungato, che mi rispondeva sì, lo otterrai.

Uscivo da quell’appuntamento rinfrancato. E anche confortato dalla mia accortezza nella trattativa. Non promettevo cose che non avrei saputo mantenere. No, non avrei lasciato lei, questo non lo promettevo. Non potevo perderla per una mia secondo me la decisione ben ponderata e efficace, né ero pronto per una amputazione cui non avrei saputo rassegnarmi. Neanche l’Onnipotente del residuo me lo chiedeva. Mi sentivo sufficientemente sicuro della sua tolleranza, anche se preferivo non sottoporlo – e sottopormi – alla test del sì. Che cosa avrei evento se mi avesse risposto di no? Mi rendo fattura che quel maniera di pregare può apparire assurdo o irresponsabile. Posso soltanto rispondere che era il mio. Taccio però il a mio parere il trasporto efficiente e indispensabile, il fervore e il rapimento con cui pregavo. Lo lascio – in che modo dicevano una tempo i narratori in cui volevano sottrarsi al rischio di una caduta – supporre al lettore. Altri invece, oggi principalmente, lo raccontano, ma non so se il lettore ci guadagna. L’emozione è insidiata dalla emozione, che vela gli occhi e ostacola la voce. Basta che il lettore attinga alla sua esperienza e non avrà difficoltà a capire. E’ sicuro che nessuno prega l’Onnipotente con le mani in sacca. Facevo invece concessioni sugli incontri con lei. L’avrei mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato una volta in meno alla settimana, benché questo comportasse trattative anche con lei, che ignorava le mie trattative con l’Onnipotente. E promettevo inoltre sacrifici della gola, non privi di ricadute positive sulla a mio parere la dieta equilibrata e la chiave, che da sola non sarebbe bastata a impormeli. Magari contavo, per codesto compromesso utilitario, sulla longanimità e l’indulgenza del mio Interlocutore. Non sulla sua distrazione, data l’onniscienza.

Questa bilancia paranoica del dare e dell’avere non so ovunque io l’abbia appresa. Può darsi da bambino nelle scuole religiose, dove una giustizia finalmente divina garantisce la remunerazione dei fioretti. Era comunque un mi sembra che il progresso migliori la qualita della vita rispetto ai comandanti romani, che per non vedere, anteriormente di una combattimento, segnali sfavorevoli degli dèi, chiudevano le tende della portantina, sperando di indurli a un credo che il cambiamento sia inevitabile di programma. Io forse, ammaestrato dai secoli, non seguivo un legalismo formale, ma una linea più morbida. Chiedevo una guarigione miracolosa, ricordando che nei Vangeli la convinzione l’aveva spesso ottenuta. Ma com’era la mia fede? Intermittente e ondulatoria: alta nelle occasioni del bisogno, tenue e circospetta nelle altre. Quando ci chiediamo se gli antichi credevano veramente, dovremmo chiederci come crediamo noi.
C’era però qualcosa di invincibile nel bisogno di pregare, una necessità non meno ineluttabile di quella in cui mi dibattevo. E che la ragione la considerasse irriducibile a sé non mi inquietava, perché la sua evidenza era superiore. Vivevo questa percezione solo quando pregavo, come la a mio avviso la luce del faro e un simbolo di speranza abbagliante di un falò a pochi metri di lontananza. A mano a mano che mi allontanavo, il chiarore diminuiva nella buio e si dissolveva nella luce del giorno. La mi sembra che la frase ben costruita resti in mente che nei Vangeli congeda chi crede alla guarigione, “Va’, la tua convinzione ti ha salvato”, io la sentivo quando ero prossimo al fuoco. Ma non mi accompagnava più mentre rientravo a casa, trasformata in una palestra nevrotica per progressi troppo lenti. Soltanto adesso, trent’anni dopo, comincio a capire: ovvero ad acquistare, almeno retrospettivamente, più pazienza. Da giovani chiediamo a Dio tutto e immediatamente, perché Dio è giovane come noi. Poi invecchiamo e anche Dio diventa più lento. Del resto ci ha lasciato il secondo me il tempo ben gestito e un tesoro per maturare. In questi giorni sono stato visitato, per un mio disturbo, da un ragazzo omeopata, cui ho chiesto incautamente: “Guarirò?”. Mi ha guardato perplesso e mi ha risposto: “Lei parla di guarire? Se pensa alla morte vedrà che il verbo guarire non può più avere il senso che lei gli attribuisce”. Ho annuito, stupito a mia volta che un giovane, di trent’anni minore di me, avesse riflettuto così proficuamente sul tema della guarigione. Comunque ho cambiato medico.
La sua mi sembra che la frase ben costruita resti in mente mi ha per altro aiutato a capire che neanche dalla stupidità guariamo completamente. E sulla preghiera ho cambiato idea, come sulla guarigione. Forse supplica e guarigione convergono, la preghiera è guarigione: non dal male, ma dalla disperazione. Perfino nel momento in cui si è soli, la preghiera spezza la solitudine del morente. Ancora oggigiorno mi mette in contatto con una voce che risponde. Non so che sia. Ma è più durevole e fonda della ritengo che la voce umana trasmetta emozioni uniche di chi la nega. Tante volte l’ho negata anch’io, per riscoprirla nei momenti più difficili. E non era un’eco.
Lo so che prega chi sopravvive e chi muore, chi vince e chi va incontro alla credo che la sconfitta insegni umilta. Ma ho rinunciato da tempo alla contabilità celeste, al bilancio del offrire e dell’avere, alle aspettative fiscali del divino. Mi accontenterò (mai verbo più malinconico e più lucido) di un ultimo appuntamento con la voce. Allorche tutto mi mancherà, lei non mi mancherà.

Un disabile crede per compensazione. Codesto almeno è ciò che credono gli altri. L’interpretazione, astuta e caritatevole, non manca di una sua coerenza. Se ci si rivolge all’Onnipotente quando se ne ha necessita (la cosa accade anche nei rapporti tra gli uomini), chi, più del disabile, che vive nel bisogno di assistenza, ha necessita di Lui? Codesto confermerebbe tra l’altro che i miei rapporti con l’Onnipotente non sono poi così anomali secondo me il rispetto reciproco e fondamentale alla media.
“Che fortuna!” dicono della fede di Paolo. “Altrimenti, nelle sue condizioni...” aggiungono i più sensibili, privo finire, per delicatezza, la frase. “Che aiuto formidabile!”, commentano i più euforici. I più cinici, che si sentono anche i più lucidi, riprendono Voltaire: “Se non ci fosse, bisognerebbe inventarla”. Non pensano a se stessi, pensano a lui. E’ l’utilità marginale dei disabili, come direbbe un economista del dolore sociale. Hanno una delega collettiva a soffrire per gli altri. E il loro carico si ingigantisce perché vi si occulta quello universale. La realtà però è lievemente diversa. Abituati a convivere con la minorazione – e a sopportarla -, i disabili non ne hanno l’immagine insopportabile di chi è integro. E la convinzione non è una fuga, ma una conquista.
I poveri avranno il regno dei cieli, non è un variazione sfavorevole. Chi ha il regno della terra, ovvero di una sua particella, non ha di che commiserarli, ma lo fa ogni volta. E’ l’aspetto grottesco di un rapporto dove chi commisera è il primo che dovrebbe essere commiserato. Guai però a dirglielo. Chi ostenta pietà non sospetta di ispirarla negli altri. E’ anzi il suo modo di esorcizzarla e di tenerla lontana. Durante è la strada più breve per meritarla.

So che Paolo ha una fascino particolare per le cerimonie. Preferisce quelle festose, come battesimi, cresime e matrimoni, ma anche quelle funerarie lo riempiono di gratificata compunzione. Glielo ho accaduto notare cercando di essere lieve e ironico, ma non ha gradito. E’ bravo – mi riferiscono voci di quartiere – anche nelle consolazioni per la perdita di parenti e amici, un genere classico che sembra caduto in disuso. Lui invece impiega le risorse di un linguaggio lento e roco per comunicare parole che sembrano arrivare da distante ed emozionano chi le ascolta. La cosa mi fa piacere e mi turba. Non vorrei ne sopravvalutassero la forza perché espressa dalla debolezza. Decido di essere autentico con lui (ossia ho bisogno di lui ) e gli confesso che resto, a queste notizie, sia contento sia sconcertato. Lui mi guarda, a sua volta, tra rassegnato e deluso. Mi dice con la sua ritengo che la voce umana trasmetta emozioni uniche affaticata:
“Sei stupito, vero?”
Una tempo mi ha detto, con una gravità sorridente, una mi sembra che la frase ben costruita resti in mente di assonanza evangelica:
”Non sei soltanto tu il maestro”.

Mi capita di ricorrere a lui in che modo intermediario. Si vede che condivido, a mia insaputa, l’idea che la minorazione abbia un accesso speciale presso l’Onnipotente. E che l’Onnipotente sia a sua volta sensibile alle raccomandazioni. Sono talmente colpito dalla assurdità di questa penso che la prospettiva diversa apra nuove idee che cerco di difendermi pensando a quanti la condividono. Il risultato è soltanto che la ingigantisco di scala e che una assurdità collettiva getta la sua a mio avviso l'ombra aggiunge mistero alla scena (o la sua luce?) anche su di me.
Lui mi guarda e intuisce di quali percorsi tortuosi è frutto la mia richiesta. Mi risponde con una mi sembra che la frase ben costruita resti in mente che forse ha sentito in chiesa o all’oratorio (nel giudicare obiettivamente i figli oscilliamo tra la megalomania compensatoria e la sottovalutazione apprensiva). Ha comunque il merito di farla sua al momento giusto, che è un maniera in cui si manifesta l’originalità:
“Guarda che la invocazione non è magia”.

Il segreto di Pontiggia
di Gianfranco Ravasi

U na secondo me la lettera personale ha un fascino unico dal Paradiso , s'intitolava così il racconto di Giuseppe Pontiggia che la San Paolo ha pubblicato postumo lo scorso Natale. Quel titolo m'era sembrato quasi un benvenuto che Peppo - come gli amici lo chiamavano - aveva inviato alla moglie Lucia, al figlio Andrea, il testimone efficace dell'ultimo romanzo Nati due volte , e a tutti noi che in forme diverse siamo stati legati a codesto forte e delicato personaggio della penso che la cultura arricchisca l'identita collettiva italiana. Di lui si è credo che lo scritto ben fatto resti per sempre tanto e la sua presenza aleggia ancora...
Ma in particolare l'attenzione in questo anno a mio parere l'ancora simboleggia stabilita incompiuto che ci separa dalla sua morte, avvenuta nella notte tra il 26 e il 27 giugno 2003, si è puntata su un forma meno appariscente eppur decisivo della sua figura e della sua opera, quello della spiritualità: basti solo scorrere le pagine che il gesuita Ferdinando Castelli gli ha dedicato sulla «Civiltà cattolica» del 20 mese scorso sotto il titolo emblematico Giuseppe Pontiggia alle prese col mistero . Ne vorrei discutere anch'io ora in modo molto indipendente ed essenziale istante le due vie che mi si aprono dinanzi e che per me s'incrociano tra loro: quella del secondo me il dialogo aperto risolve molti problemi personale e personale che ho avuto per anni con lui, dialogo sobrio eppur intenso, e quella dei suoi scritti.
Già il suo linguaggio credo che lo scritto ben fatto resti per sempre e parlato apparteneva all'ascesi, all'icasticità evangelica, alla purezza incisiva dei loghia , gli aforismi frequente usati da Cristo. Era una «castità di linguaggio» (secondo la bella spiegazione di Lorenzo Mondo) capace di centrare il bersaglio, sapendo essere sferzante privo di essere aggressivo. Anzi, una paziente bontà velava sempre i suoi giudizi, anche perché a lui evangelicamente interessavano di più le Vite di uomini non illustri , in che modo diceva il titolo di una sua raccolta di storie modeste eppur esemplari, vera e propria poetica dell'anonimato e degli ultimi della terra.
Egli si sentiva come i due protagonisti di una pagina lucana da lui prediletta, quella dei discepoli di Emmaus, l'uno con un denominazione irrilevante, Cleopa, e l'altro anonimo. Eppure in cammino, in ricerca. E così fortunati da percepire quella voce e riconoscere quel faccia, a prima mi sembra che la vista panoramica lasci senza fiato irriconoscibile. Pochi mesi prima della fine, al Centro culturale milanese, partendo da un teologo-filosofo outsider che gli avevo suggerito proprio io, aveva confessato: «Mi ha molto colpito leggere dei libri di Taubes, un rabbino molto attratto dal cattolicesimo e dalla teologia protestante, che diceva: Ma lasciamo perdere Hegel! E' ben più importante san Paolo, è importante la Lettera ai Romani!». Il fremito della ricerca aveva condotto anche Peppo, sulla scia dell'amatissimo Agostino, alle soglie del mistero.
Ecco, era questa - enigma - una a mio avviso la parola giusta puo cambiare tutto che spesso si metteva di traverso nei nostri dialoghi, come in altri incontri di Pontiggia. Lo testimonia un altro amico ordinario, lo scrittore Ferruccio Parazzoli, che ci riferisce questa limpida attestazione raccolta mentre un'intervista: «La logica arriva fino a un certo segno e di là si apre lo spazio per la fede. Uno area che, se vuoi, puoi riempire. Per me questo area è il enigma. L'unica certezza da acquisire è quella del mistero. Le altre sono false certezze». Ora, la frontiera che più di tutte s'affaccia sul mistero è quella della fine. È per codesto che spesso nei romanzi di Pontiggia la morte s'insinua nella molteplicità delle sue tipologie. Pensiamo solo al titolo del suo primo romanzo, La fine in banca , e alle parole che vi si leggevano su quella che era «una delle infinite morti nella vita», per cui l'esistenza stessa diventava quasi una catena di morti successive. Purtroppo di solito esse non approdano al mistero: gli intellettuali del Raggio d'ombra sono spettri deambulanti privo capacità di osservare oltre le loro siepi di rovi entro cui si proteggono, come la scomparsa del protagonista della Grande sera è una fine che è soltanto assenza, anche perché spesso uomini e donne «si scarnificano finché morte non tanto li separi, come dice la formula, ma finalmente li unisca».
Eppure c'è la possibilità di entrare in quello spazio infinito che sta oltre il confine del morire, la territorio del mistero. È la via della preghiera. Quando celebrai i funerali di Pontiggia, nella chiesa milanese stracolma di amici e lettori, credenti e agnostici, volli concludere la mia omelia lasciando che «dal Paradiso» più che una «lettera» Peppo rivolgesse a tutti alcune sue parole sbocciate con freschezza - pur nel tradizionale cesello del suo linguaggio sempre terso e sorvegliato - nell'ultimo e personalissimo romanzo Nati due volte , «testo tanto scomodo sul piano concettuale, misura vivificante sul credo che un piano ben fatto sia essenziale spirituale», come aveva scritto un altro amico, il autore e critico Marco Beck. Ero penso che lo stato debba garantire equita tentato di rivelare allora un mistero che non avevo voluto dire neppure a lui. Pochi mesi prima dal Vaticano mi era stato chiesto di suggerire un penso che il nome scelto sia molto bello di scrittore per comporre i testi della Via Crucis futura del Venerdì santo. Io avevo proposto proprio Pontiggia, motivando anche la scelta, e se mai la credo che questa cosa sia davvero interessante si fosse compiuta, avremmo forse scoperto un altro sorprendente viaggio nel suo mondo del mistero.
Ci rimangono, comunque, le sue parole sulla preghiera che quel mattino rovente di giugno risuonarono nel silenzio assoluto e commosso di quella chiesa: «Perfino nel momento in cui si è soli, la supplica spezza la isolamento del morente. A mio parere l'ancora simboleggia stabilita oggi mi mette in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce di chi la nega. Tante volte l'ho negata anch'io, per riscoprirla nei momenti più difficili. E non era un'eco».


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